Berlusconi e Salvini fanno saltare il Governo Draghi

La crisi è l'inevitabile conclusione di un'apertura mai realmente concessa dal premier Draghi a Giuseppe Conte.

Attacchi, dietrofront, accuse, bocciature. Se si volesse in sintesi racchiudere il discorso di Mario Draghi di ieri (qui il video) nei confronti dei Cinque stelle non si potrebbe che sintetizzarlo in questo modo. Ragion per cui la decisione ultima di non partecipare al voto di fiducia al Senato – e dunque di fatto sfiduciare il premier – è stato coerente con le premesse.

La crisi è l’inevitabile conclusione di un’apertura mai realmente concessa da Draghi a Conte

Inevitabile conclusione di un’apertura mai realmente concessa da Draghi a Giuseppe Conte e al suo Movimento. Né col dl Aiuti né tantomeno sulla base di quel documento programmatico contenente le nove priorità dei pentastellati che fino all’ultimo il premier ha ignorato e snobbato.

La prova è in alcuni passaggi dell’intervento di ieri del presidente del Consiglio Draghi. Un intervento che, di fatto, non presenta alcun segno di novità o di discontinuità rispetto al passato, come invece aveva richiesto Ettore Licheri nel suo intervento al Senato. Anzi, se possibile fa qualche passo indietro.

Attacchi al Superbonus e al Reddito di cittadinanza. Il premier, nel pallone, responsabile della sua Caporetto

Draghi per esempio ieri ha affermato che in merito al Reddito di cittadinanza serve “ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro”. Un’affermazione più volte smentita dai dati e che contraddice anche quanto dichiarato da ministri del suo stesso governo. Quanto al salario minimo, il discorso di Draghi a Palazzo Madama non cambia di una virgola il compromesso “all’italiana” anticipato nei mesi scorsi dal ministro del Lavoro Andrea Orlando.

La conferma è nel riferimento del premier alla direttiva europea sul salario minimo: “Ed è in questa direzione che dobbiamo muoverci, insieme alle parti sociali, assicurando livelli salariali dignitosi alle fasce di lavoratori più in sofferenza”. Chi conosce la direttiva sa che l’Italia potrebbe anche non recepirla o addirittura farlo senza in realtà cambiare lo stato delle cose, e soprattutto senza fissare una soglia salariale minima per legge, come chiesto tra gli altri dal Movimento 5 stelle.

Il richiamo di Draghi è invece ancora una volta limitato alla contrattazione collettiva, che però non è riuscita ad arginare l’emorragia di potere d’acquisto dei salari italiani degli ultimi decenni. Ma non è tutto: perché nessuna apertura del premier c’è stata sulla proposta pentastellata, inserita nel ddl Catalfo, con l’asticella fissata a 9 euro lordi l’ora per tutti i lavoratori.

Anzi, per Draghi “occorre spingere il rinnovo dei contratti collettivi. Molti, tra cui quelli del commercio e dei servizi, sono scaduti da troppi anni. La contrattazione collettiva è uno dei punti di forza del nostro modello industriale, per l’estensione e la qualità delle tutele, ma non raggiunge ancora tutti i lavoratori”. Tutto come prima, insomma.

Ma non è tutto. Altro riferimento centrale è quello sul Superbonus, misura voluta dal Movimento e sulla quale Giuseppe Conte da settimane chiede garanzie. Su questo però il presidente del Consiglio è stato molto tiepido: “Per quanto riguarda le misure per l’efficientamento energetico e più in generale i bonus per l’edilizia, intendiamo affrontare le criticità nella cessione dei crediti fiscali, ma al contempo ridurre la generosità dei contributi“.

Proprio il mancato rinnovo del Superbonus era stata citato dal M5s tra i motivi per non sostenere più l’esecutivo. Una posizione che ha assunto toni ancora più di rottura nelle repliche del premier che prima ha detto che “il reddito di cittadinanza è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva”, e poi, sul superbonus appunto, ha dichiarato che “il problema sono i meccanismi di cessione.

Chi li ha disegnati senza discrimine o discernimento? Sono loro i colpevoli di questa situazione in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto e tirare fuori dai pasticci e dai guai quelle migliaia di imprese che si trovano in difficolta’”, ha aggiunto il presidente del Consiglio evidentemente individuando negli stessi pentastellati i responsabili.

Finita qui? Certo che no. Molto netto Draghi è stato anche sulla fornitura delle armi all’Ucraina, questione fortemente contestata da Giuseppe Conte e dai suoi parlamentari, come no: “Dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina in ogni modo, come questo Parlamento ha impegnato il governo a fare con una risoluzione parlamentare. Come mi ha ripetuto ieri al telefono il presidente Volodymyr Zelensky, armare l’Ucraina è il solo modo per permettere agli ucraini di difendersi”.

A fianco dell’agenda sociale, che ha definito “urgente” rivolgendosi di fatto al leader M5s, Draghi ha anche parlato del ddl Concorrenza, che riguarda anche “i taxi” e le concessioni balneari” (molto contestato dalla Lega) e che deve “essere approvato prima della pausa estiva. Ora c’è bisogna di un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo”, “non il sostegno a proteste talvolta violente”.

Ma il premier è stato tranchant anche per un altro argomento su cui è stata ampia la discussione con i pentastellati: “Dobbiamo accelerare l’istallazione dei rigassificatori – a Piombino e a Ravenna. Non è possibile affermare di volere la sicurezza energetica degli italiani e poi, allo stesso tempo, protestare contro queste infrastrutture”. Quasi come fosse una colpa scendere in piazza in una democrazia.

Inevitabile, stando così le cose, la chiusura annunciata dalla capogruppo al Senato Maria Domenica Castellone che ha portato tutto il gruppo parlamentare M5S ad astenersi dal voto. Un modo garbato per non concedere la fiducia al premier. Una posizione ribadita poi in serata anche dallo stesso Conte: da Draghi “c’è stato un atteggiamento sprezzante che non fa il bene del Paese”.

E ancora: “Abbiamo ricevuto insulti e anche da parte delle forze di centrodestra c’è stato un atteggiamento incomprensibile”, ha aggiunto Conte, sottolineando che c’è stato un “forte ostruzionismo e la volontà di cacciarci fuori dalla maggioranza. Siamo diventati il bersaglio di un attacco politico, siamo stai messi alla porta, non c’erano le condizioni perché potessimo continuare con leale collaborazione”, ha ribadito. “Non era questione di ultimatum ma di priorità su cui bisognava definire un’agenda di governo”. Cosa che non è accaduta. Con l’esito che tutti noi conosciamo.

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