Calo demografico, disagio sociale e miopia politica: l’Italia non è un Paese per giovani

Disagio mentale, povertà educativa e invisibilità politica: l’Italia del 2030 rischia di disinvestire proprio sui suoi giovani.

Calo demografico, disagio sociale e miopia politica: l’Italia non è un Paese per giovani

Il rischio più grande non è il declino demografico. È l’irrilevanza politica che ne consegue. L’Italia si sta rapidamente trasformando in un paese dove i giovani non sono solo sempre meno: sono anche sempre meno ascoltati, visti, considerati. E il paradosso è che proprio mentre avremmo bisogno di loro – delle loro energie, del loro sguardo – li stiamo lasciando soli.

Secondo le proiezioni Istat elaborate da Openpolis, entro il 2030 i giovani tra i 10 e i 19 anni diminuiranno del 9,5%. In alcune province, come Caltanissetta ed Enna, il calo supererà il 18%. In numeri assoluti, significa che tra cinque anni il paese perderà più di mezzo milione di adolescenti. E se diminuiscono, rischiano di contare ancora meno. È questo il vero bivio: trasformare la fragilità demografica in fragilità politica.

Il disagio normalizzato dei giovani

I dati sul disagio giovanile parlano chiaro. Nel 2023, 1,3 milioni di minori vivevano in famiglie in povertà assoluta, il livello più alto dal 2014: quasi il 14% del totale. Ma ridurre tutto alla dimensione economica è miope. La pandemia ha segnato una frattura educativa che non si è più ricomposta. Nel 2025, solo il 59% degli alunni raggiunge i traguardi previsti in italiano al termine del primo ciclo scolastico; in matematica siamo al 56%. Nel 2019 erano rispettivamente il 65% e il 60%. È una caduta secca, senza risalita.

Più che una crisi educativa, è una crisi di orizzonte. Il disagio mentale – ansia, depressione, sintomi da stress – è diventato la prima causa di carico di malattia tra gli adolescenti. Lo rileva la seconda commissione Lancet sul benessere giovanile: nel 2030 si perderanno 42 milioni di anni di vita in salute per disturbi psichici e suicidi. Il dato è globale, ma in Italia trova conferma nei segnali di sofferenza quotidiana. Non è un fenomeno improvviso. È il risultato di un decennio di rarefazione sociale, dove la solitudine è diventata la regola e la partecipazione l’eccezione.

Un capitale che non vogliamo investire

Eppure, sarebbe possibile un altro racconto. Quello di una generazione che, pur nel disincanto, partecipa. Nel 2024, oltre il 10% dei 18-19enni italiani ha preso parte ad attività di volontariato. Il 3,3% si è impegnato in associazioni ambientaliste o per i diritti civili, quasi il doppio della media nazionale. Sono cifre modeste, ma parlano di una voglia di esserci. Di un desiderio di agire, di cambiare.

Questo potenziale ha un nome: “triplice vantaggio”, lo chiama la Lancet Commission. Investire nei giovani significa rafforzare chi sono oggi, chi diventeranno da adulti, e i figli che metteranno al mondo. È un effetto moltiplicatore. Ma servono scelte. E servono subito.

Nel frattempo, la percezione è quella di un’esclusione sistemica. Solo il 37% dei giovani italiani pensa di avere voce sulle decisioni locali, contro una media UE del 44%. Eppure, sono anche quelli che esprimono maggiore fiducia nel futuro (47,5% contro il 42% Ue) e più rabbia (19,6% contro 14%). Due sentimenti che, insieme, dicono: non rassegnazione, ma urgenza.

Una generazione controvento

Il rischio è che questo patrimonio vada disperso, fagocitato da un sistema che, di fronte alla riduzione numerica dei giovani, smetta semplicemente di considerarli. È già accaduto: basti pensare al modo in cui la scuola è stata trattata durante la pandemia. O al progressivo abbandono degli spazi pubblici di socialità, partecipazione, aggregazione. La stessa retorica sui giovani – sfaccendati, assenti, pigri – è parte del problema.

Ma se c’è una verità che questo paese fatica a vedere, è che i giovani italiani non sono il problema. Sono la cartina di tornasole. Ci stanno dicendo che non si può vivere in una società senza futuro se a non avere futuro sono proprio loro.

Serve, soprattutto, un atto di fiducia istituzionale: riconoscere nei giovani un soggetto politico, non un problema demografico. Perché, continuando a trattarli come una voce a margine, presto ci accorgeremo che è il Paese intero a essere fuori campo.