L’11 maggio 2022, a Jenin, la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh cade sotto i colpi di un tiratore. A distanza di tre anni, un colonnello statunitense rompe il silenzio e racconta che la versione ufficiale fu attenuata per non irritare Israele. Non è un dettaglio di cronaca: è un tassello che incrina la narrazione comoda secondo cui «tutto comincia» dopo il 7 ottobre. La catena di decisioni, omissioni e coperture è precedente e ben visibile. Lo ricostruisce un’inchiesta del New York Times (27 ottobre 2025), basata su testimonianze interne all’Office of the United States Security Coordinator, l’ufficio che seguì per Washington la revisione del caso.
Cosa dicono i documenti americani
Nel luglio 2022 il Dipartimento di Stato rese pubblica una valutazione: «probabile» responsabilità israeliana, «nessuna ragione» per ritenere l’uccisione intenzionale, «tragiche circostanze». Parole calibrate. Secondo i funzionari che lavorarono al dossier, però, dentro l’amministrazione la spaccatura fu netta: alcuni erano convinti che il soldato israeliano sapesse di colpire giornalisti riconoscibili, altri sostenevano la prudenza della nota ufficiale.
A parlare oggi è il colonnello Steve Gabavics, allora alto ufficiale dell’USSC: racconta di rilievi balistici sul posto, visuali libere su reporter con pettorine «Press», assenza di fuoco proveniente dal gruppo dei giornalisti, rosate di tiro troppo precise per essere “nebbia di guerra”. Per lui, la condotta fu deliberata. Il superiore, il generale Michael Fenzel, difese invece la linea della cautela e firmò la cornice di «fatalità». L’Fbi aprì un’indagine nel novembre 2022; non ha ancora reso note le conclusioni. Il risultato, politico prima che giudiziario, è una nota diplomatica che addomestica i fatti e preserva la relazione con l’alleato.
Una storia che comincia prima
L’inchiesta del Times racconta anche il dietro le quinte: bozze irrigidite da chi chiedeva di scrivere ciò che i rilievi indicavano, interventi per smussare, l’ufficiale più intransigente allontanato dal fascicolo. Dettagli burocratici? No, anatomia di una priorità politica. La «tutela del rapporto» con l’esercito israeliano pesa più della verità scomoda su un’icona del giornalismo arabo, uccisa mentre lavorava. La sequenza — uccisione (11 maggio 2022), perizia condivisa con Israele, comunicato del 4 luglio 2022, indagine federale ancora senza esito — è una cronologia che anticipa di oltre un anno ogni giustificazione post-7 ottobre: mostra come l’impunità non sia un incidente ma un ecosistema, dove le parole ufficiali diventano anestetico per i fatti.
C’è di più. Le circostanze tecniche descritte (angoli di tiro, colpi mirati, sequenza contro produttore, giornalista, soccorritore) negano la tesi del fuoco casuale. E quando un apparato di sicurezza civile, non investigativo in senso stretto, viene chiamato a “valutare” e non a “indagare”, il perimetro dell’esito è già segnato: niente interrogatori a testimoni, nessuna autonomia probatoria, massima deferenza per i partner sul terreno. Il lessico scelto — «probabile», «nessuna ragione per credere», «tragico» — diventa l’arma diplomatica per diluire responsabilità operative precise. È così che una verità fattuale scivola nella zona grigia della plausibile negazione.
Questa vicenda non riguarda solo la memoria di Shireen Abu Akleh. Riguarda la catena causa-effetto che ha normalizzato pratiche e coperture ben prima dell’autunno 2023. Se un caso emblematico, con la pressione dell’opinione pubblica mondiale e la cittadinanza statunitense della vittima, viene “raffreddato” in nome dell’equilibrio strategico, cosa accade ai mille casi che non fanno titolo? La domanda è politica: quali comportamenti è indotto a mantenere un esercito quando sa che il costo diplomatico resterà tollerabile, che la parola «intenzionale» potrà essere sempre rimandata?
Nel dossier americano c’è anche la lezione per il giornalismo: i dettagli contano. La distanza dal mezzo israeliano, la visibilità delle pettorine, i colpi sul carrubo, la sequenza contro chi soccorre. Sono elementi che trasformano un “incidente” in una condotta, e una condotta in una politica di fatto. È su questi dati che si misura la sincerità delle alleanze e la qualità dell’informazione. E sono questi dati, raccolti il giorno stesso della morte di Abu Akleh, a dire che la storia non comincia il 7 ottobre. Comincia prima, quando la verità viene messa in coda alle priorità geopolitiche.
Chi oggi pretende di azzerare il contatore al calendario della guerra rimuove questa cronologia scomodissima. Il punto, invece, è tenerla ferma: per la giustizia dovuta a una reporter e per la sostanza di un dibattito pubblico che non sia un esercizio di rimozione. Per chiamare le cose con il loro nome, senza più rifugi semantici.