Cassa Depositi e Disastri, tra soldi pubblici bruciati e conflitti d’interesse. Debacle per i vertici renziani

di Stefano Sansonetti

In Cassa Depositi e Prestiti tira una pessima aria. Sia per quello che sta succedendo, come conseguenza della prima vera operazione del nuovo management, sia per quello che potrebbe succedere alla prossima operazione. Da una parte Saipem, al momento disastroso acquisto perfezionato dalla nuova Cassa gestita da Claudio Costamagna, nel ruolo di presidente, e da Fabio Gallia, in quello di amministratore delegato, entrambi fortemente voluti dal Governo al punto da aver interrotto in anticipo il mandato dei predecessori. Dall’altra Ilva, all’interno della quale la medesima Cassa potrebbe entrare mettendo in qualche imbarazzo la posizione di alcuni manager. Sta di fatto che era solo fine gennaio quando la Cassa, attraverso il suo Fondo strategico, ha rilevato dall’Eni un 12,5% del capitale di Saipem, la società di ingegneria petrolifera sino a quel momento “pesantemente” controllata dal Cane a sei zampe. Il quale ne ha ceduto una quota per alleggerirsi del fardello di debiti della controllata. Il punto, però, è che a fine gennaio il Fondo strategico ha rilevato 55,1 milioni di azioni Saipem (pari appunto al 12,5%) al prezzo di 8,3956 euro ciascuno. Per un totale di 463,2 milioni di euro di esborso.

IL CROLLO
Poi ci si sono messi i vari crolli, dal prezzo del petrolio alle Borse in generale. E siamo arrivati alla debacle finale di ieri. Mentre Piazza Affari, come tutti gli altri listini, è rimbalzata salendo del 5,03%, Saipem è ulteriormente caduta dell’1,34%, chiudendo a 0,362 euro ad azione. In soldoni significa che ora il 12,5% di Saipem in mano al Fondo strategico vale 20 milioni di euro. Insomma, il braccio operativo della Cassa, che è bene ricordare opera con i soldi del risparmio postale degli italiani, si è inflitto una minusvalenza potenziale monstre, lasciando sul terreno il 95,6% del valore. Un bagno di sangue da 443 milioni di euro che sta facendo storcere non poco il naso anche agli azionisti privati della Cassa Depositi, ovvero quelle fondazioni bancarie che complessivamente ne detengono il 18,4%, accanto all’80,1% in mano al Tesoro oggi guidato da Pier Carlo Padoan. Rebus sic stantibus, si capisce bene la preoccupazione con cui adesso si assiste al possibile intervento della Cassa Depositi in Ilva, la disastrata acciaieria che si sta disperatamente cercando di risollevare.

GLI SVILUPPI
Per carità, le situazioni sono diverse. Ma il biglietto da visita che Costamagna e Gallia si portano dietro adesso non è affatto dei migliori. Inutile stare a raccontare quali e quanti problemi abbia l’Ilva. Piuttosto, in quello che potrebbe essere il coinvolgimento della Cassa, si delineano posizioni non proprio da manuale. Tra i pretendenti dell’Ilva, infatti, c’è il gruppo Marcegaglia, guidato dall’ex presidente di Confindustria. Ma la stessa Emma Marcegaglia è anche presidente dell’Eni, la cui quota di maggioranza, ovvero il 25,7%, è in mano a quella stessa Cassa Depositi che si candida a essere coinvolta nell’acciaieria con il gruppo Marcegaglia. Insomma, il solito incrocio. Il tutto in un percorso di salvataggio dell’Ilva che finora ha riservato più delusioni che altro al Governo guidato da Matteo Renzi, che pure avrebbe voluto appuntarsi una medaglietta di “salvatore” dell’acciaieria. Lo stesso Governo, nel decreto sblocca Italia, aveva varato misure per realizzare velocemente in Puglia il gasdotto Tap, le cui ricche commesse avrebbero dovuto risollevare l’Ilva. Ma l’acciaieria non è riuscita a vincere nemmeno un appalto per l’infrastruttura. E poi, tornando alla Cassa, continua a permanere il problema dello squilibrio di bilancio tra partecipazioni e patrimonio netto. Al 30 giugno del 2015 le prime valevano 29,6 miliardi di euro. Ancora troppi rispetto ai 19,4 miliardi di patrimonio netto. Un’anomalia che la società si trascina da anni e che non sembra poter essere risolta alla luce delle ultime mosse.

Twitter: @SSansonetti