Dieci anni fa, il 2 settembre 2015 il corpo del piccolo Aylan Kurdi, tre anni, fu ritrovato senza vita su una spiaggia di Bodrum. L’immagine, scattata dalla fotoreporter Nilüfer Demir, divenne un simbolo globale e spinse i leader europei a giurare che simili tragedie non sarebbero più state tollerate. Le parole furono solenni: «mai più», «solidarietà», «responsabilità condivisa». Dieci anni dopo, il conto è di almeno 30mila persone morte o disperse nel Mediterraneo secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. L’Europa che aveva promesso di cambiare rotta si è rifugiata nell’esternalizzazione dei confini e in un lessico burocratico che ha reso invisibili altre centinaia di bambini annegati.
Il pacchetto Juncker e le promesse del 2015
Il 9 settembre 2015, nello State of the Union, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker propose un pacchetto straordinario: ricollocamento obbligatorio di 160mila richiedenti asilo da Italia e Grecia, apertura di hotspot per identificazioni rapide, più fondi per reinsediamenti e corridoi umanitari, una riforma strutturale del regolamento di Dublino. Angela Merkel, pochi giorni prima, aveva pronunciato il suo «Wir schaffen das»; François Hollande si allineò, Donald Tusk promise di rafforzare Frontex «senza rinunciare a salvare vite». In Italia, Matteo Renzi rivendicò il «dovere di salvare vite umane» chiedendo una risposta europea.
Nel concreto, però, la relocation straordinaria si fermò a meno di 29mila persone tra il 2015 e il 2017, circa il 18% dell’obiettivo. Nel 2020 la Corte di giustizia condannò Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca per il rifiuto delle quote. La riforma di Dublino rimase bloccata fino al nuovo Patto migrazione e asilo del 2024. La promessa simbolica di quel settembre è stata tradita.
Dal “mai più” all’esternalizzazione
L’anno successivo arrivò la svolta. Il 18 marzo 2016 l’Unione europea firmò l’accordo con la Turchia: contenere le partenze nell’Egeo in cambio di miliardi di euro e concessioni politiche. Amnesty International e l’Onu denunciarono violazioni dei diritti e respingimenti. Nel febbraio 2017 l’Italia sottoscrisse con la Libia il memorandum che ancora oggi finanzia e addestra la cosiddetta Guardia costiera libica, documentata per intercettazioni illegali e ritorni in centri di detenzione segnati da torture e violenze. Rinnovato nel 2020 e nel 2023, è diventato un pilastro della politica migratoria italiana, sostenuto da governi di segno diverso.
Nel frattempo l’operazione europea “Sophia”, che almeno aveva avuto una componente di ricerca e soccorso, è stata chiusa nel 2020 e sostituita da “Irini”, centrata sull’embargo di armi. Una scelta che ha svuotato di fatto l’impegno pubblico europeo per il salvataggio in mare. Tra il 2023 e il 2024 Bruxelles ha replicato lo schema: intesa da oltre un miliardo con la Tunisia, partenariato con l’Egitto per 7,4 miliardi, protocollo Italia-Albania che consente di trattenere e processare richiedenti soccorsi da navi italiane in centri extra-UE. Nel 2024, con il Patto migrazione e asilo, la solidarietà è diventata “flessibile”: gli Stati possono sostituire i ricollocamenti con contributi finanziari.
Trentamila morti e i bambini senza nome
I dati OIM e UNHCR dicono che tra il 2015 e l’agosto 2025 nel Mediterraneo sono morte o scomparse almeno 32.854 persone. Il 2016 resta l’anno più letale con 5.096 vittime. Dopo un calo nel 2019, le morti sono risalite: 3.231 nel 2021, 4.110 nel 2023, 3.530 nel 2024 e già 1.292 nei primi otto mesi del 2025. La letalità della rotta centrale è aumentata: nel 2024 è morto un migrante ogni 120 persone partite.
Tra queste vittime ci sono circa 3.500 bambini, uno ogni tre giorni. Molti senza nome, mai diventati simbolo come Aylan. Nel 2020 «Joseph», sei mesi, muore dopo un’evacuazione; nel 2022 annega un neonato di venti giorni; nel 2023 un bimbo di cinque mesi non sopravvive a un naufragio a Lampedusa. Nel giugno 2023, nel naufragio al largo della Grecia, decine di minori risultano dispersi, ma la vicenda è stata rapidamente archiviata dai governi e dalla stampa.
Dieci anni dopo, la promessa di Bodrum non si misura più nelle parole ma nei vuoti. I leader europei che nel 2015 garantivano solidarietà hanno eretto barriere giuridiche e fisiche; gli Stati che piangevano Aylan hanno rinnovato intese con milizie accusate di crimini. Senza canali legali di ingresso, senza una missione pubblica di ricerca e soccorso, senza un meccanismo obbligatorio e automatico di redistribuzione, il Mediterraneo resterà un cimitero liquido. Ogni anniversario, più che ricordare, certifica l’ipocrisia.