La miccia è esplosa due giorni fa, quando la Corte dei conti ha negato il visto di legittimità alla delibera Cipess che avrebbe sbloccato 13,5 miliardi per il Ponte sullo Stretto. Ma la reazione del governo ha travolto la decisione. Giorgia Meloni ha parlato di «invasione di campo», Matteo Salvini di «scelta politica». Il diniego è diventato il casus belli per riportare lo scontro sotto i riflettori e rilanciare l’urgenza di un progetto già scritto: la riforma che punta a ridisegnare la Corte dei Conti e a ridurre i poteri di controllo della magistratura contabile.
Corte dei Conti, una riforma che viene da lontano
Non si tratta di un’ira improvvisa. Il disegno di legge S.1457, era già stato approvato dalla Camera il 9 aprile, mesi prima dello scontro sul Ponte. Le parole della premier — «La riforma della giustizia e quella della Corte dei conti sono la risposta più adeguata a questa intollerabile invadenza» — hanno solo reso esplicito un piano preesistente.
Le prove generali si erano viste due anni prima. Nel 2023 il governo aveva sottratto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza al cosiddetto controllo concomitante della Corte dei Conti, quello che permette di monitorare i progetti mentre vengono realizzati. Raffaele Fitto, all’epoca ministro per gli Affari europei, aveva sostenuto che la vigilanza spettasse soltanto a Bruxelles.
Palazzo Chigi aveva poi istituito un «tavolo di lavoro» con la Corte, trasformando un organo di controllo indipendente in un soggetto concertativo. Nello stesso periodo lo “scudo erariale”, nato in pandemia per proteggere i funzionari che agivano in buona fede, è stato prorogato e reso strutturale. La retorica della “paura della firma” — l’idea che la burocrazia si paralizzi per timore dei giudici contabili — è diventata il grimaldello per ridurre la responsabilità amministrativa.
Il messaggio politico è stato chiaro: chi firma non deve temere le conseguenze, anche se le sue decisioni costano milioni allo Stato. Il principio di legalità si è piegato a quello dell’efficienza, e il controllo è stato ridefinito come intralcio.
L’architettura della riforma
Il ddl porta alle estreme conseguenze quella filosofia. Quattro i pilastri principali. Il primo è la ridefinizione della colpa grave: un funzionario risponderebbe solo per «violazione manifesta della legge» o «travisamento del fatto», cancellando la sanzione per negligenza o incompetenza.
La Corte ha avvertito che così si creerebbe «una zona di impunità». Il secondo è il “silenzio assenso”: se la Corte non esprime un parere entro 30 giorni – termine spesso insufficiente per valutare migliaia di pagine di atti – questo si intende favorevole. Un meccanismo che permetterebbe di inondare la magistratura di richieste per ottenere, di fatto, uno scudo automatico. Il terzo è la riorganizzazione interna: il governo si attribuisce la delega per unificare funzioni di controllo, consultive e giurisdizionali, minando la separazione che garantisce l’indipendenza dei giudici. Il quarto introduce un tetto ai risarcimenti per danno erariale, limitando al 30 per cento il contributo personale del funzionario condannato.
L’Associazione dei magistrati contabili parla di «illegalità diffusa e caos organizzativo». La Corte stessa, nel parere n. 4/2025, ha sollevato profili di incostituzionalità per violazione degli articoli 28 e 97 della Carta. Ma il governo tira dritto.
La demolizione dall’interno
La battaglia non è soltanto normativa, è simbolica. Meloni e Salvini hanno ripetuto che la Corte dei conti blocca le opere e ostacola il popolo. La narrazione rovescia il senso stesso dei controlli costituzionali, trasformandoli da garanzia a intralcio. È lo stesso schema già sperimentato con la separazione delle carriere e con gli attacchi alla magistratura ordinaria: ridurre il potere dei giudici, rafforzare quello dell’esecutivo, presentare ogni verifica come un gesto ostile verso il “governo del fare”.
Dietro la riforma contabile c’è un mutamento più profondo. Si passa da uno Stato di diritto a uno Stato di risultato, dove la legalità è subordinata all’obiettivo politico. Un sistema in cui un’amministrazione che “realizza” è protetta anche se sbaglia, anche se spreca.
La Corte dei conti, nata per garantire che il potere non spendesse senza rispondere, diventa così l’ultimo baluardo di una legalità che il governo percepisce come fastidio. E il Ponte sullo Stretto, con le sue carte incomplete e le sue regole ignorate, è solo l’occasione perfetta per accelerare la resa dei conti.
