Due popoli e due piazze, dopo l’Ucraina gli ex renziani del Pd usano Gaza per logorare Schlein

Gaza diventa il nuovo campo di battaglia interno del Pd: riformisti divisi tra sabotaggio mascherato e alleanze centriste

Due popoli e due piazze, dopo l’Ucraina gli ex renziani del Pd usano Gaza per logorare Schlein

Quando la crisi in Medio Oriente arriva a Roma, il Partito democratico si conferma laboratorio permanente di divisioni. “Due popoli, due Stati, tre cortei”: la sintesi brutale non viene dai detrattori, ma fotografa la frattura interna che la questione Gaza ha riacceso e reso plastica. Elly Schlein guida ufficialmente un Pd che ha scelto una posizione netta, ma intorno a lei i soliti noti della corrente riformista lavorano, ancora una volta, per indebolire la sua leadership, sfruttando la politica estera come leva per regolare conti interni mai chiusi.

La piazza di Schlein e il fronte di sinistra

Schlein non ha usato giri di parole. Ha definito Gaza un “inferno in terra” con “più di 50mila morti, 15mila bambini” e ha accusato il governo Meloni di “complicità” per l’immobilismo diplomatico. Il Pd, insieme a M5S e AVS, ha depositato una mozione parlamentare che chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina, il cessate il fuoco immediato, l’embargo sulle armi verso Israele, sanzioni internazionali e il sostegno ai mandati della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant.

La manifestazione di Roma, convocata per il 7 giugno a Piazza San Giovanni, si presenta come il banco di prova della nuova linea politica: un’alleanza organica con il M5S e la sinistra ecologista, una rottura netta rispetto ai vecchi equilibri centristi. Schlein “tira dritto” e consolida il blocco progressista, anche a costo di esasperare il nervosismo della minoranza interna.

Il teatro parallelo dei riformisti

La minoranza non è rimasta a guardare. Il 6 giugno, al Teatro Franco Parenti di Milano, andrà in scena l’alternativa riformista. I protagonisti: Guerini, Madia, Malpezzi, Quartapelle, Gori, Sensi e Picierno, in compagnia di Renzi e Calenda. È qui che il sabotaggio prende forma sotto il velo del “realismo”: si chiede il cessate il fuoco, sì, ma senza ambiguità su Hamas, evitando – parole di Calenda – “bandiere che inneggiano alla morte degli ebrei”.

In realtà, la scelta di Milano serve a marcare il confine politico ed esistenziale con la linea Schlein-M5S. I riformisti rifiutano la radicalità delle richieste di Roma, strizzano l’occhio a Renzi e Calenda e mantengono aperta la porta verso il centro. Guerini lo dice esplicitamente: “Serve un Pd aperto e plurale”. Tradotto: meno Schlein, più centro liberale.

L’ambiguità calcolata dell’opzione dorotea

C’è poi chi prova a giocare su entrambi i tavoli. Diversi esponenti dem hanno scelto di partecipare sia alla manifestazione di Roma che a quella di Milano. Una strategia definita con precisione chirurgica dal Riformista: “Per non sbagliare, farsi vedere tra i dialoganti il venerdì e tra i contestatori più frontali il sabato”. Un equilibrismo che rivela il vero obiettivo: tutelare visibilità personale senza assumere rischi politici netti.

Dietro la narrazione dell’unità c’è il consueto calcolo tattico: logorare Schlein senza rompere formalmente, offrendo al tempo stesso sponda ai centristi che sognano un’area moderata alternativa al campo largo. La metafora più azzeccata la fornisce ancora il Riformista: “Il vegetariano che il giorno prima fa l’aperitivo vegano e il giorno dopo partecipa alla grigliata”.

La replica del copione ucraino

Le manovre sulla questione Gaza ricalcano, del resto, la stessa dinamica già vista sulla guerra in Ucraina. Anche lì Schlein venne accusata di “balbettare”, mentre i riformisti, da Guerini in giù, rivendicavano il pieno sostegno militare all’Ucraina e un saldo atlantismo. Raffaella Paita aveva affondato il colpo: “Il Pd è diventato un comitato studentesco e Schlein la rappresentante d’istituto”.

Il disegno è chiaro: ogni dossier di politica estera diventa il pretesto per contestare la legittimità politica della segretaria, minarne l’autorità e costruire un asse alternativo con Azione e Italia Viva. Il tutto senza mai aprire lo scontro finale, ma logorando giorno dopo giorno.

Il Pd senza pace

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un partito che non riesce a darsi un’identità coesa, prigioniero di una minoranza che non accetta il risultato congressuale e sfrutta ogni occasione per depotenziare la linea scelta dagli iscritti. Gaza, come l’Ucraina prima, è solo l’ennesimo terreno di una guerra interna permanente.

E mentre fuori il mondo brucia, dentro il Pd si continua a giocare lo stesso gioco sporco. Sempre col sorriso diplomatico di chi parla di pluralismo, mentre prepara l’ennesimo trappolone.