E ora i call center riattaccano

di Alessandro Banfo

Erano stati definiti il sottoproletariato del XXI secolo, l’icona del lavoro precario e (spesso) sottopagato. E’ il popolo degli operatori dei call center, che ieri è sceso in piazza a Roma e ha incrociato le braccia per protestare contro una situazione al limite per gli oltre 80 mila addetti al settore.
Alla manifestazione proclamata dai sindacati di categoria (SlC Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil) sono accorsi in 8 mila, per dire basta all’assenza di regole, alla delocalizzazione selvaggia e a una legislazione sugli appalti che non tutela i lavoratori. In testa al corteo romano, partito da piazza Santi Apostoli, uno striscione: “Contro delocalizzazioni e dumping”. Uno dei punti critici della regolamentazione del settore riguarda le gare al massimo ribasso. Un meccanismo che porta ad un frequente cambio di appalti, fenomeno che si ripercuote negativamente solo sui lavoratori

Le aziende si spostano in Albania
Molte poi le aziende che hanno iniziato a spostarsi all’estero, ad esempio in India o Albania, per rispondere di notte alle telefonate provenienti dall’Italia. Il motivo? Semplice: in questi luoghi la paga oraria si aggira tra i 2 e i 3 euro l’ora.
Una concorrenza ovviamente  insostenibile per i lavoratori italiani, che accettano condizioni di lavoro e stipendi non adeguati, e in più, molto spesso, si tratta di persone qualificate. Il 60%, infatti, ha una laurea. Lavoratori e sindacati chiedono un rilancio del settore e che venga rispettato l’articolo 24 bis del decreto Sviluppo del 2012, che obbliga la società ad avvisare 120 giorni prima il ministero del Lavoro e il Garante della privacy del trasferimento dell’attività in un Paese straniero e prevede per i clienti il diritto di scegliere se essere assistiti da un operatore all’estero o in Italia. “Questi ex-ragazzi, questi lavoratori meritano una risposta perché in Europa quello che succede in Italia non capita. Crediamo che il governo debba intervenire prontamente sulla normativa dei cambi d’appalto per dare sicurezza e garanzia ai lavoratori”, ha spiegato il segretario Slc-Cgil Michele Azzola, ribandendo che “ècolpa dello Stato se questo sistema funziona male”. Sulla questione il presidente della Camera L aura Boldrini ha annunciato un’indagine conoscitiva a Montecitorio, mentre il vice ministro allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti ha ribadito che entro il mese si riunirà il tavolo di settore con l’obiettivo di individuare nuove regole su appalti e delocalizzazioni.

Ma la giornata di mobilitazione ha anche come obiettivo anche quello di una normalizzazione dei salari. Perché nel settore non sembra esserci un salario minimo. Alcuni ragazzi, gli ultimi assunti, vengono sfruttati a 200-300 uero al mese, lavorando ogni giorno e senza ferie.
I più “fortunati”, che riescono a strappare un contratto a progetto a circa 600 euro al mese, ma devono vivere con l’angoscia del rinnovo. Non tutti infatti vengono confermati e spesso il rinnovo arriva ogni 2-3 mesi, in rarissimi e fortunati casi ogni 6 mesi. Ci sono poi i veterani dei call center, come alcuni uomini e donne che lavorano da 12 o 13 anni presso Almaviva Contact a Palermo. Loro rappresentano una piccolissima minoranza, ovvero coloro chesono riusciti a ottenere un contratto a tempo  indeterminato con tutte le garanzie che ne conseguono.  Ma solo perché hanno trovato impiego in una società, la Almaviva per l’appunto, considerata la big tra le top aziende più grandi che lavorano in Italia. Per tutti gli altri un contratto simile è una pallida chimera, quando fino a pochi anni fa i call center erano diventati un modo quasi sicuro per aver un, seppur modesto, stipendio assicurato.

A rischio 10 mila posti
La situazione del settore è vicina al baratro. Secondo il segretario generale Fistel Cisl, Giorgio Serao “sono a rischio 10 mila posti nei prossimi mesi”. E i primi segnali sono già sotto gli occhi dei lavoratori visto che dal primo maggio 2014 sono finiti a casa i 200 dipendenti di Voice Care, che gestiva per Seat il Pronto pagine gialle 89.24.24. Senza cassa integrazione perché la società è fallita.