Basterebbe evocare i padri nobili dell’attuale Costituzione repubblicana – da Calamandrei a Dossetti, da Einaudi a Pertini – e metterli a confronto con quelli della riforma della giustizia del governo Meloni. Dall’ex premier (pregiudicato) Berlusconi, a cui è stata non a caso dedicata dal leader di Forza Italia Tajani, al venerabile maestro della Loggia P2 Gelli.
Sarebbe sufficiente questo per porsi qualche dubbio sugli effetti, da questo giornale considerati nefasti sin dall’inizio dell’iter parlamentare, di quello che sembra più un regolamento dei conti con la magistratura che un disegno finalizzato a migliorare il funzionamento e l’amministrazione della giustizia. Lo ricordava ieri l’ex procuratore di Bari, Giuseppe Volpe, in un intervento a sua firma ospitato da Repubblica. Quanto a Gelli “il piano di rinascita democratica della loggia P2, sequestrato nel luglio 1982, prevedeva”, ha scritto il magistrato, “nel medio e lungo termine riforme costituzionali per introdurre ‘responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull’operato del pm; Consiglio Superiore della Magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento’; ‘separare le carriere requirente e giudicante’…”. Quanto all’ex premier, invece, “Berlusconi ed i suoi hanno costantemente attaccato la magistratura proponendo interventi normativi (leggi ‘ad personam’) volti a sottrarre l’imputato eccellente ai processi”, ha aggiunto Volpe, “sino alla modifica anche dei tempi di prescrizione dei reati per conseguire esiti favorevoli con la estinzione dei delitti contestati”.
Ma senza andare così indietro nel tempo, basta elencare tutti gli interventi di questo governo sulla Giustizia, a cui aveva fatto da apripista l’esecutivo Draghi con l’introduzione dell’improcedibilità targata Cartabia, per mettere insieme le tessere del mosaico: dall’abolizione dell’abuso d’ufficio al depotenziamento del traffico illecito di influenze, dalla stretta sulle intercettazione all’avviso all’indagato almeno 5 giorni prima, nel caso di richiesta di misure cautelari. Il risultato lo spiega il procuratore di Napoli, Gratteri, intervistato da La Notizia: “Con questa riforma costituzionale si pone, invece, la premessa per sottoporre il pubblico ministero al controllo politico del governo di turno, separandolo definitivamente dalla giurisdizione. Un altro aspetto importante riguarda l’esercizio del potere disciplinare: viene introdotta una norma ambigua, che può portare al controllo e al condizionamento esterno della magistratura da parte della politica”. In altre parole la fine dell’autonomia e dell’indipendenza dei pubblici ministeri. Per scongiurarlo non ci resta che correre a votare il referendum.
 
											