Prima o poi doveva gettare la maschera, e da ieri Mario Draghi è candidato al Quirinale (leggi l’articolo). Il candidato più forte, per ora, anche se è lunga la lista di chi si è presentato Papa e ne è uscito cardinale. D’altra parte, spedirlo sul Colle potrebbe significare la fine della legislatura, visto che non si trovano sotto i funghi altri Messia capaci di tenere nella stessa maggioranza da Conte a Salvini, da Berlusconi a Letta.
Un miracolo che oggi oltre a Mario nostro potrebbe riuscire giusto a Mattarella. Dunque è improbabile che i partiti vogliano correre il rischio di andare al voto in mezzo a una risalita della pandemia e, soprattutto, in vista del minor numero di seggi per effetto del taglio dei parlamentari. Per questo la forzatura del premier sa di autogol, in quanto il gran rifiuto a sostenerne il trasferimento alla Presidenza della Repubblica significherebbe capovolgere il suo attuale ruolo: da commissario della politica in commissariato dai partiti.
Una posizione senz’altro meno comoda di quella di cui ha goduto fino adesso, e che lascia immaginare per il prossimo anno un Far West nell’attività parlamentare. Senza contare l’inesorabile scomparsa del carisma di unto dal Signore, persino più rovinosa di quanto non accadde con Mario Monti, altro tecnocrate idolatrato dai poteri forti e poi finito per non contare più nulla una volta fatti i conti con gli elettori. Un passaggio ineludibile in democrazia, al quale Draghi non si sogna neppure di sottoporsi, ma che ora lo obbliga a tentare il tutto per tutto per diventare Capo dello Stato o prepararsi a sparire.