Se fare i figli delle vittime è un mestiere, girovagare da una tv all’altra rivendicando quella stagione è una vergogna. E talvolta – seppure camuffato dalla ricostruzione storica – anche un crimine che il nostro codice definisce apologia di reato. Sulla incomprensibile indulgenza verso questa riabilitazione postuma di assassini rimbecilliti da ideologie più imbecilli di loro, si è detto molto in questi giorni, ricorrendo i 40 anni dal rapimento di Aldo Moro. Questo giornale è stato tra i primi a porre il caso, con un editoriale del Direttore del Centro di Ricerca su Sicurezza e Terrorismo, Ranieri Razzante. Le trasmissioni previste sono andate però regolarmente in onda e l’indignazione generale di fronte alla faccia tosta dell’ex brigatista rossa Barbara Balzerani ha finito per dare persino più pubblicità alle ragioni di chi spinse il grilletto su uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita allo Stato. I fatti d’altra parte sono lontani, e dopo tanto tempo i frutti velenosi apparsi all’inizio degli anni Settanta (ma con le radici piantate nel Sessantotto) possono sembrare meno letali. Un errore assoluto. Persino in questi anni di disimpegno, dove una cantante in voga tra i giovanissimi come Levante canta candidamente che in piazza si va al massimo per portarci a spasso il cane, far passare certi concetti deposita pericolose tossine in grado di scatenare nuove dolorose malattie. È il caso visto ieri a Modena, dove a 16 anni dalla morte del giuslavorista Marco Biagi sono apparse scritte inneggianti all’assassino.
Di scritte infamanti sui muri ne appaiono quasi ogni giorno. Se la madre degli imbecilli è sempre incinta, quella dei codardi grafomani sul cemento delle città deve depositare più larve delle zanzare. Anarchici (quasi sempre con le idee confuse), provocatori, disadattati e molto spesso poveri fancazzisti, ci deliziano con svastiche, falci e martello, minacce e volgarità. Quando il clima generale si fa però incandescente, più che sporcare i muri si sporcano le menti. E la nostra comunità torna in pericolo. Chi ha scritto sui viali dell’ateneo emiliano “1000 Biagi”, oppure il penoso “Marco Biagi non pedala più”, per non parlare “dell’onore a Marco Galesi” (uno degli assassini del professore) cerca l’emulazione, la rivolta a qualunque costo contro regole che non si ha la capacità democratica di far cambiare, semmai andassero cambiate. In quell’inchiostro infatti c’è lo stesso piombo usato il 19 marzo 2002 dalle Nuove Brigate Rosse in via Valdonica, a Bologna, il sangue di tutte le vittime degli anni di piombo, l’ipocrisia di chi condanna per facciata ma poi strizza l’occhio a certi ambienti. Perfetti modelli dell’incoerenza che in questo Paese serve a far carriera. Come si affronta tutto questo odio? Per prima cosa ascoltando, e per dignità cominciando da chi ha pagato il prezzo di un familiare ucciso.
SCORTA REVOCATA
Il figlio di Biagi, Lorenzo, in tal senso ieri è stato lapidario: “il monopolio della parola non lo vogliamo avere noi vittime, ma non lo dovrebbero avere di certo loro che sono solamente degli assassini e dovrebbero tacere e basta”. E ancora: “Essendo una persona molto credente, non provo odio nei confronti di nessuno e neanche nei confronti degli assassini di mio padre però ovviamente non li perdono neanche perché mio padre non l’ho più e questo rimarrà così per sempre”. Lorenzo Biagi è tornato anche sul tema della mancata scorta, ricordando che il padre aveva una protezione fino a pochi mesi prima di essere ucciso, sino a novembre del 2001. Per cui non è senza senso che chi ha deciso di toglierla abbia sottovalutato il pericolo.
PERSEVERARE E’ DIABOLICO
A fronte di quella stagione di violenza politico-sindacale, che ha avuto proprio in Biagi una delle ultime vittime, dopo le voci dei parenti vanno sentite anche le istituzioni, la cultura, chi ha studiato quella lunga scia di sangue, senza escludere i protagonisti negativi che hanno parlato all’epoca con le P38 e oggi possono farlo ancora con le loro farneticazioni, la cui diffusione va garantita verso chiunque sia in grado di capirne il senso o perlomeno l’intenzione, e non certo diffuse su larga scala per inculcare alle menti più semplici (o più calde) chissà quale finta idea romantica di giusta rivoluzione contro il sistema sfruttatore. Quella miserabile nostalgia per la vita spezzata di un uomo apparsa ieri sui muri di Modena è un gioco che sappiamo dove porta. Ricascarci sarebbe diabolico.