Il ministero dell’Economia non ha ancora pigiato il tasto invio sull’ultimo bonifico da 5,4 miliardi al Monte dei Paschi e già arriva un altro costo per il Paese: la banca di Siena metterà sulla strada 5.500 dipendenti. Il ministro del Tesoro Padoan canta vittoria, e anche con qualche ragione, ma solo tra Toscana e Veneto lo Stato ha scucito direttamente o indirettamente decine di miliardi per salvare la credibilità del nostro sistema del credito. Sacrifici che mal si combinano con l’andamento generale del Paese. Proprio ieri l’istat ha svelato che la lieve ripresa appena incrociata sta già rallentando. E nei prossimi mesi il quadro non si presenta affatto incoraggiante. Le sirene di allarme si stanno sentendo sempre più spesso. Dalla Banca d’Italia ai report più o meno riservati delle grandi banche d’investimento internazionale, emerge il possibile replay dell’attacco speculativo visto nel 2011 sui mercati. Il conto alla rovescia già programmato per ridurre e poi concludere l’immissione di liquidità monetaria da parte della Bce potrebbe far tornare facilmente le tensioni sul debito degli Stati con un forte debito pubblico.
Parliamo del giochino dello spread, insomma, con cui nella prima edizione fu fatto saltare un governo (che piacesse o no) regolarmente eletto, mentre in una ipotetica replica il finale è del tutto imprevedibile. Molto esemplificativo, per capirci, cosa prevede un report di Moody’s rivelato in esclusiva dal nostro Stefano Sansonetti su La Notizia di ieri: il tasso di default (cioè di fallimento) dell’Italia può arrivare tra dieci anni all’11%. Per essere chiari: stiamo ballando sul Titanic.
Che spreco – Non per piangere sul latte versato, ma per capire dove è stato il nostro più grande errore degli ultimi anni: abbiamo mancato clamorosamente l’opportunità di fare le grandi riforme che ci servono. L’occasione non possiamo dire di non averla avuta. Con i tassi a zero garantiti dalla Banca centrale europea e un’elasticità che ai tempi di Tremonti ministro del Tesoro nemmeno ci sognavamo di chiedere all’Europa, avremmo potuto creare le condizioni legislative, economiche e di fiducia indispensabili per far ripartire il Paese. Chi stava messo peggio di noi, come il Portogallo e la Spagna, si è dato da fare e oggi può ridere dei dati sulla nostra crescita. Pensate che per quest’anno la Confindustria stima un aumento della ricchezza prodotta (il Pil) dell’1,3%, mentre a Madrid hanno dovuto correggere le stime del Governo perchè passeranno dal 2,7 al 3% tondo. Più del doppio rispetto a Roma, dove qualche ministro ha avuto pure la faccia tosta di festeggiare lo scatto in avanti dello zero virgola (dall’1,1 all’1,3%).
Tutti numeri che significano il fallimento delle poche riforme fatte dai tre Esecutivi Letta, Renzi e Gentiloni. Dal lavoro alla pubblica amministrazione, dalla scuola alla Giustizia, abbiamo visto riforme dai nomi pretenziosi, come il Jobs Act, con dentro sicuramente qualcosa di buono ma in fin dei conti troppo poco rispetto alle esigenze di un Paese ingessato da decenni. Renzi, in particolare, con la sua promessa di sfornare una riforma al mese, ha creato un’aspettativa che adesso lo azzoppa anche elettoralmente. Paga la rottura con i “vecchi” del suo stesso partito, l’ostilità dei corpi intermedi costretti a qualche piccolo sacrificio, e la delusione di chi aveva creduto in una spinta riformista più radicale. Certo, grazie alla propaganda e al sistema di potere costruito in pochi anni, ci sono ancora molti elettori disposti a dargli credito. Soprattutto per il calcolo di rientrare sul carro del vincitore. Ma siccone non c’è argomento più testardo dei numeri – dalla disoccupazione rimasta altissima alla povertà – le urne ormai quasi sicure in primavera potrebbero essere per il Pd renzizzato ben più deludenti delle ultime amministrative. E tra la difficile gestione degli immigrati e le nuove tasse a cui già si pensa per far quadrare la manovra finanziaria di fine anno, Grillo e i rissosi partiti del Centrodestra sentono di avere la loro grande occasione a portata di mano. Il tempo rimasto prima dei diktat sui conti da Bruxelles, prima delle prossime elezioni politiche e prima del rialzo del costo del denaro è dunque poco. Ma non pochissimo se Gentiloni provasse a riprendere il tema delle riforme. O ci provasse almeno, invece di limitarsi a scaldare la sedia per Renzi, come sta facendo. Perchè se continua a limitarsi a questo non è davvero detto che su quello scranno ci torni qualcuno del Pd.