L'Editoriale

Gli ultimi usati per far cassa

In Manovra il governo introduce uno scudo per le aziende che hanno sottopagato i lavoratori. Gli ultimi usati per far cassa

Gli ultimi usati per far cassa

L’accanimento del governo Meloni contro i poveri non conosce tregua. Giorno dopo giorno, provvedimento dopo provvedimento, le destre al potere aggiungono un nuovo tassello a un disegno politico ormai chiarissimo: colpire chi lavora e chi è più fragile, proteggere chi ha già troppo, riscrivere nei fatti la Costituzione cancellandone i principi fondamentali. Le norme su salari e pensioni che l’esecutivo va assemblando non sono episodi isolati, ma parti di un unico mosaico ideologico, costruito con ostinazione e cinismo.

Un mosaico che racconta una scelta di campo precisa, fatta contro i lavoratori, contro i disoccupati, contro chi vive ai margini. L’articolo 36 della Costituzione non lascia spazio a interpretazioni: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. È proprio questo principio che il governo Meloni sta sistematicamente calpestando.

Non è un caso che lo stesso esecutivo abbia scelto di smantellare il Reddito di cittadinanza, una misura che, pur con limiti e necessità di riforma, garantiva un minimo di protezione a milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. Il governo ha preferito cancellarla senza costruire vere alternative, abbandonando i più deboli al proprio destino, colpendoli due volte: prima togliendo un sostegno essenziale, poi accusandoli, quasi, di essere un peso per la collettività. Una scelta ideologica che ha lasciato intere famiglie senza tutele, mentre si continuano a difendere interessi ben più forti e organizzati.

L’ultimo colpo di mano è arrivato con la legge di Bilancio, trasformata ormai in una Manovra di ripensamenti, marce indietro e colpi inferti di nascosto. Con un emendamento infilato col favore delle tenebre il governo ha introdotto uno scudo vergognoso per le aziende che hanno sottopagato i lavoratori, persino quando i giudici hanno accertato la violazione dell’articolo 36 della Costituzione. In altre parole: se hai sfruttato, se hai pagato salari indegni, se hai violato la Carta, il governo corre in tuo soccorso. La norma è cucita su misura per settori come quello della vigilanza privata, dove contratti firmati anche da sindacati rappresentativi prevedono stipendi così bassi da essere stati bocciati dai tribunali. Non perché “fuori contratto”, ma perché incostituzionali.

Ebbene, il governo Meloni ha deciso che quelle sentenze non contano più. Ripescando un tentativo già fallito del senatore Salvo Pogliese (FdI), infilato mesi fa nel decreto Ilva, la legge di Bilancio stabilisce ora che il datore di lavoro non possa essere condannato a pagare le differenze retributive o contributive per il periodo precedente al deposito del ricorso. Una norma che cancella diritti già riconosciuti e su cui persino il Servizio Studi del Parlamento accende un faro. Ma poco importa: quando si tratta di tutelare i lavoratori, per la destra le regole diventano un ostacolo.

Giuseppe Conte, leader del M5S, parla apertamente di blitz, e ha ragione. “Sono gli stessi – ha denunciato – che dicono no al salario minimo legale, no all’aumento degli stipendi, no al sostegno per i cassintegrati colpiti dal crollo del potere d’acquisto. Sono gli stessi che però trovano sempre le risorse per aumentare i rimborsi a ministri e sottosegretari”. Il mondo al contrario. Elly Schlein rincara la dose: “I datori di lavoro che non hanno garantito un salario equo non saranno più obbligati a pagare gli arretrati, nonostante le sentenze dei giudici. È un fatto gravissimo, che dimostra come questo governo non solo ignori il lavoro povero, ma lavori attivamente per renderlo strutturale”, dice la leader dem.

E come se non bastasse, la Manovra colpisce ancora una volta i lavoratori più deboli anche sul fronte pensionistico. L’aumento dei requisiti – un mese in più dal 2027 e altri due dal 2028 – ricadrà soprattutto sui working poor, su chi ha carriere frammentate, salari bassi, contributi discontinui. Donne e giovani, ancora una volta. Parliamo di oltre 6 milioni di persone, un terzo dei dipendenti privati, che guadagnano meno di 15 mila euro l’anno. Per loro, ogni mese in più non è una statistica, ma un pezzo di vita sottratto. I dati dell’Osservatorio Inps, analizzati dalla Cgil, parlano chiaro. Chi guadagna 5 mila euro l’anno dovrà lavorare mesi in più solo per compensare l’ennesimo irrigidimento imposto dal governo. Nel 2050, per alcuni, servirà oltre un anno di lavoro aggiuntivo per maturare una pensione, perché venti mesi di fatica ne varranno solo dodici ai fini previdenziali.

E mentre si chiede ai lavoratori di lavorare di più e guadagnare di meno, la legge di Bilancio taglia ancora: meno risorse per i lavoratori precoci, meno fondi per chi svolge mansioni usuranti. Decine di milioni cancellati senza pudore, come se si trattasse di spiccioli e non di vite segnate da anni di lavoro duro. La logica è brutale e coerente: punire chi è povero, premiare chi è forte. Questa è l’ennesima prova del fallimento di un governo che guarda sempre ai pochi fortunati e volta le spalle ai fragili.

“L’accusa al governo è di attuare una politica di austerità. Allora, questa politica di austerità io la traduco con il termine prudenza, ma cosa vuol dire questa prudenza, vuol dire partire da un dato di fatto e dal livello del debito pubblico che ha questo Paese”, ha replicato ieri in aula il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Il punto è che, quando si hanno poche risorse da distribuire, a fare la differenza, politicamente, è il dove si decide di concentrare queste poche risorse. E le destre non hanno mai avuto dubbi a schierarsi con i più forti.