L'Editoriale

Il passo che i dem non faranno

Per il segretario uscente del Pd, causa disfatta elettorale, il prossimo congresso non dovrà essere un referendum tra Conte e Calenda.

Chiusi per sempre gli occhi di tigre, Enrico Letta usa un’altra metafora per confermare a chi non ci fosse ancora arrivato che il suo Pd è un partito senza più identità. Togliamoci il doppio petto – dice alla direzione nazionale – e mettiamo gli abiti dell’opposizione.

Come abbia fatto la forza politica che ereditava le tradizioni storiche della Sinistra a passare dalle bandiere rosse all’abito elegante resta però un dettaglio, alla pari di cosa vogliono diventare i dem in futuro. Per il segretario uscente, causa disfatta elettorale, il prossimo congresso non dovrà essere un referendum tra Conte e Calenda.

Ma è proprio qua che si definisce la natura progressista o neo-liberista del partito, e con la propria fisionomia anche il tipo di elettorato che si vuole rappresentare. I dem così come sono è chiaro che non hanno una prospettiva di governo, e renderli più o meno disponibili a un percorso di alleanze, tipo quello che il 25 settembre scorso doveva essere il campo largo, lascia incerti gli obiettivi e i valori di riferimento.

Se non si sa scegliere tra Conte e Calenda vuol dire che non si sa proprio da che parte stare, e si è persa ogni memoria del proprio popolo e di chi si è stati. Dunque cambia poco se si cambiano nome o segretario: è la mission di fondo che manca, ed essere riusciti fino a oggi a compensarla distribuendo poltrone non assicura più alcun futuro.

Una prospettiva che imporrebbe a tutti i dirigenti, e non al solo Letta di fare un passo indietro. Ma a un tale partito questo è davvero chiedere troppo.

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