Se un signore promette 300 miliardi di investimenti e dopo più di un anno di quei soldi non c’è traccia, sentirsi dire conta frottole è il minimo che gli possa capitare. Questo è il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, in precedenza premier di quel Lussemburgo che faceva da paradiso fiscale, e insieme falco del rigore nei conti pubblici dei partner europei. Mettendosi sotto la gonna della Merkel, il vispo Juncker ha fatto carriera e dall’alto del governo della Ue ieri ha minacciato uno dei Paesi che più di tutti gli pagano un immeritato stipendio. L’attuale Commissione è infatti l’emblema di una comunità burocratica e immobile, santuario di lobbisti e grandi affari mentre l’idea di Europa muore. È in crisi Schengen, la Gran Bretagna se ne vuole andare, Bruxelles ha sulla coscienza migliaia di morti nel Mediterraneo e l’elenco degli altri disastri è purtroppo lunghissimo. Per questo l’uscita di Juncker ha fatto solo un favore a Matteo Renzi, che apparentemente è ormai un baluardo di Bruxelles e Berlino. Intanto però la nostra politica economica resta fedele ai diktat europei. Un salasso dietro la cortina di fumo delle polemiche.
L'Editoriale