L'Editoriale

Un premier fedele agli Usa

Cosa si siano detti Biden e Draghi lo possiamo ricostruire solo con le veline degli staff, in attesa che il nostro premier informi il Senato.

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Un premier fedele agli Usa

A parte “caro Joe” e “caro Mario”, cosa si siano detti davvero Biden e Draghi lo possiamo ricostruire solo con le veline degli staff, in attesa che il nostro premier con tutta calma informi il Senato il 19 maggio.

Da quanto emerge pare però che il capo del Governo abbia impegnato l’Italia a dare più armi alla Nato, come gli americani chiedono da tempo, pur in presenza di una precisa richiesta di ridiscutere in seguito questo punto, avanzata dal leader della prima forza politica in Parlamento, Giuseppe Conte.

Se le cose stessero così, Draghi si sarebbe appropriato indebitamente di un mandato che gli era precluso, e questo spiegherebbe il rifiuto a rendere conto alle Camere prima del viaggio a Washington, prevedendo a quel punto l’impossibilità di accontentare la Casa Bianca.

Come contropartita ci saranno state concessioni sull’energia, forse l’offerta di affidare allo stesso Draghi o a Letta l’incarico di segretario generale della Nato, che Stoltenberg sta per lasciare. Ma di fatto ieri negli Stati Uniti non si è fatto un passo avanti in direzione della pace.

Anzi! L’Italia ha consolidato il ruolo di testa di ponte americana in Europa proprio mentre Parigi e Berlino parlavano con Xi Jinping (lunedì Scholtz e ieri Macron), per tirarsi fuori da una strada che non spunta (armi e sanzioni) e cercare una soluzione per l’Ucraina intensificando la diplomazia.

Un processo dal quale l’Italia si sta tirando fuori, nonostante l’inteso lavoro silenzioso del ministro degli Esteri Di Maio, perché non si possono riempire gli arsenali e allo stesso tempo essere credibili come tessitori di un dialogo pure con Putin.