Eurobond, ecco perché sono indispensabili. La Bce non basta. Rischiamo un distanziamento sociale tra le diverse economie europee

È del tutto evidente che, ancora una volta, l’unica istituzione che si è dimostrata in grado di agire con rapidità in una fase di estrema emergenza è stata la Banca Centrale Europea. Era successo con il varo del “Quantitative Easing” di Mario Draghi nella precedente crisi, è successo oggi con l’attivazione della PEPP (Pandemic Emergency Purchase Program) da 1000 mld della signora Christine Lagarde (nella foto). Il punto è che gli interventi della BCE sono di natura monetaria e, quindi, strumenti di breve periodo adatti, nella fase dell’emergenza, a calmierare lo spread e a iniettare tonnellate di liquidità nel sistema. Ma, per converso, non sono strumenti adatti a finanziare gli interventi strutturali che si renderanno necessari nella seconda fase: quella della “ricostruzione”.

Di conseguenza, diventa fondamentale continuare in sede europea il difficile confronto per trovare un accordo sull’individuazione di “un veicolo” che, poggiando sul bilancio europeo, emetta strumenti di debito a rischio condiviso per 1000/1500 mld indispensabili alla seconda fase. Dunque, una qualche forma di Eurobond, di Recovery bond (secondo la proposta francese) o di “fenice bond” vista la indubbia necessità di risorgere dalle ceneri. E trovare una qualche forma di accordo su questo strumenti di debito europeo è fondamentale per 3 ragioni: 1) se si abbandonano i Paesi finanziariamente più deboli (che sono anche i più colpiti dalla pandemia) alla propria capacità di indebitarsi, li si spinge nelle fauci della speculazione che, come noto, caccia in branco alla ricerca delle prede isolate e ferite. 2) in mancanza di strumenti di debito condiviso, si assisterà inevitabilmente, nella successiva fase della ricostruzione, ad una sorta di “distanziamento sociale delle economie”.

Da una parte i paesi “teutonici” più autonomi finanziariamente e, dall’altra parte, i Paesi Mediterranei più fragili e dipendenti dal supporto comunitario. Il grosso problema è che questa divaricazione delle economie metterebbe sotto pressione non solo i singoli stati, ma la stessa impalcatura europea con conseguenze del tutto imprevedibili. 3) la mancanza di una risposta comune europea innesterebbe inevitabilmente sull’attuale crisi “da shock pandemico” una seconda crisi di natura finanziaria. Il punto è che l’uscita da una “pestilenza”, una volta passata l’onda anomala dell’emergenza sanitaria, tende ad avere un andamento a “V” (vedi Cina e Corea). Al contrario, la crisi finanziaria innestata sulla prima assumerebbe una configurazione ad “L”, meno violenta, ma lunga, strisciante e perfettamente in grado di impedirci di uscire dalla crisi in tempi che non siano biblici.

L’autore è economista e docente Innovation Academy Trentino Sviluppo