L’export italiano cresce davvero, nonostante i dazi? I numeri messi in fila da Pagella Politica impongono prudenza. Nel primo semestre 2025 il valore delle vendite all’estero è salito di circa il 2,1% sullo stesso periodo del 2024, mentre le quantità esportate sono scese di circa il 2%. È la differenza tra fatturato e colli spediti: l’effetto prezzo e la composizione delle merci gonfiano l’incasso senza dire molto sulla competitività reale. In parallelo, il secondo trimestre arretra rispetto al primo: il dato semestrale sorride, l’ultimo spicchio si increspa.
La geografia conta: nel semestre gli scambi intra-Ue corrono più dell’extra-Ue. Questo indica che l’impulso viene dalle filiere europee integrate, non dai mercati dove le barriere crescono. E il punto statistico è essenziale: il dato principale è nominale, misura il valore a prezzi correnti. Se i listini si muovono più delle quantità, le percentuali seducono ma non spiegano. Servono deflatori e serie sui volumi per capire se le imprese stanno davvero guadagnando terreno o se incassano di più vendendo pezzi simili.
Export, i numeri del semestre
A trainare ci sono farmaceutica e chimico-medicinali, mezzi di trasporto esclusi gli autoveicoli, alimentari e bevande, metalli di base. Dove si frena, lo si fa con decisione: raffinati e coke, e l’automotive. Il cambio euro-dollaro aiuta i ricavi espressi in valuta locale, ma non risolve i nodi industriali: scala, standard, continuità di investimento. La logistica si è normalizzata rispetto al biennio delle strozzature, ma la transizione dell’auto, i semiconduttori e il packaging restano fronti dove la manifattura italiana rischia di inseguire.
Dentro il dato medio convivono due Italie: i grandi gruppi che presidiano la fascia alta e le Pmi che soffrono margini compressi e tempi di consegna. Laddove qualità, certificazioni e assistenza post-vendita sono solide, il prezzo pesa meno; altrove la concorrenza si gioca su centesimi e su dilazioni, e il rallentamento dei volumi è un campanello. È qui che una politica industriale dovrebbe intervenire con strumenti non retorici: tecnologie abilitanti, reti di fornitura qualificate, credito all’innovazione che premi chi aumenta produttività e non chi gonfia fatturati nominali.
Dazi, scorte e realtà
Il capitolo Stati Uniti – quello più politicizzato – mostra un aumento del valore dell’export nei primi sei mesi. Non è una patente d’immunità. Gli annunci tariffari si sono moltiplicati e corretti in poche settimane, con aliquote rimaneggiate e finestre di applicazione scaglionate. Nel mezzo agisce un probabile “effetto scorte”: importatori che anticipano gli ordini per mettersi al riparo, rigonfiando i conti prima di un fisiologico raffreddamento. Il giudizio serio si dà sui dati di fine estate e autunno, quando gli anticipi si esauriscono e le nuove aliquote entrano a regime; fino ad allora la curva racconta più le tattiche che le tendenze.
Qui si innesta la politica. Il governo usa il semaforo verde nominale per minimizzare l’impatto dei dazi e rivendicare la «resilienza» delle imprese. Una politica industriale, però, richiede strumenti e non slogan: assicurazioni pubbliche selettive contro gli shock tariffari, coordinamento Ue sulle difese commerciali e sulle regole d’origine, un piano per l’auto e per i componenti strategici, logistica e dogane che riducano tempi e costi, incentivi alla scala e all’innovazione di processo. Sace e Simest proteggono margini e investimenti, ma non sostituiscono la strategia: senza produttività misurabile, standard condivisi e qualità verificabile si resta aggrappati ai cicli esterni.
La lezione è chiara: l’export cresce in valore, arretra in volume, e la giostra dei dazi non ha ancora presentato il conto. Chi si ferma al fotogramma più favorevole fa propaganda. Il mestiere, qui, è distinguere prezzi da pezzi, picchi tattici da traiettorie, narrativa politica da contabilità. I prossimi mesi diranno se quel 2,1% è sostanza o solo aria calda di stagione.