Falcone e Borsellino non volevano la separazione delle carriere. Chi li tira in ballo per giustificare la riforma lo fa in modo improprio

Nessuna prova, molte manipolazioni: Falcone e Borsellino difendevano l’indipendenza del Pm, non il suo asservimento al potere politico

Falcone e Borsellino non volevano la separazione delle carriere. Chi li tira in ballo per giustificare la riforma lo fa in modo improprio

“Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo. Questo è inaccettabile“. A parlare è Giovanni Falcone, in un’intervista a La Repubblica del 25 gennaio 1992. Nessun embrione della riforma Nordio, ma l’esplicita condanna del suo obiettivo reale: svuotare l’autonomia del Pm.

Ancora più netto Paolo Borsellino, nell’intervista a Samarcanda del 23 maggio 1991: “Separare le carriere significa spezzare l’unità della magistratura. Il magistrato requirente deve poter svolgere la sua funzione senza dover rendere conto al potere politico“. In una lettera privata, Borsellino definisce la separazione “un cavallo di Troia per disarticolare la forza unitaria dell’azione giudiziaria“.

La verità documentale è questa: non esiste alcuna dichiarazione, proposta o posizione di Falcone o Borsellino che sostenga la separazione delle carriere così come oggi disegnata. Al contrario, entrambi ne individuavano i rischi, in termini di gerarchizzazione, vulnerabilità politica e indebolimento del sistema penale contro la mafia.

Specializzazione, non subordinazione

Chi oggi manipola Falcone, lo fa citando a metà frasi come quella in cui distingueva tra “il Pm come investigatore“ e “il giudice come arbitro“. È vero: nel passaggio al codice accusatorio del 1989, Falcone invocava una specializzazione funzionale. Parlava di competenze, non di carriere separate. Diceva: “Chi, come me, richiede che siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza“.

Ma “carriere differenziate“, nel suo lessico, significa formazione adeguata, selezione rigorosa, professionalità mirata. Non significa due ordini giudiziari distinti, come invece prevede la riforma Nordio, che introduce concorsi separati, due Csm, l’impossibilità di passaggio tra funzioni (peraltro consentita oggi una sola volta nei primi dieci anni di carriera cambiando regione) e una linea di comando che isola il Pm, rendendolo vulnerabile a pressioni politiche.

Falcone stesso, nella sua biografia professionale, smentisce la narrazione dei fautori della riforma: passò quattro volte da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa. Per lui, l’interscambiabilità era una ricchezza. “Un elemento di crescita“, lo definiva. Anche Borsellino fece lo stesso percorso. La cultura dell’osmosi tra le funzioni era parte integrante della loro idea di giurisdizione.

Le vere radici della separazione: la P2

Chi promuove oggi la separazione delle carriere cita Falcone, ma dimentica – o finge di dimenticare – che quel progetto era parte integrante del Piano di Rinascita Democratica della loggia P2 di Licio Gelli. In quel documento, sequestrato nel 1981, c’era scritto nero su bianco: “Separazione delle carriere. Sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo. Riforma del Csm”.

Non è una coincidenza. È una genealogia ideologica. Quel piano voleva controllare l’azione penale, ridurre l’autonomia della magistratura, proteggere gli interessi della politica corrotta e della criminalità organizzata. Falcone e Borsellino, che per primi indagarono sulle connessioni tra mafia e apparati deviati dello Stato, erano il bersaglio diretto di quella visione.

I fautori di oggi non ne fanno mistero. L’attuale ministro della Giustizia ha dichiarato di volere la separazione delle carriere “fin dal 1995“, quando ancora Falcone e Borsellino erano vivi nella memoria, ma già assenti come ostacolo. Antonio Tajani, commentando l’approvazione della riforma in Senato, ha detto chiaramente: “Si realizza il sogno di Berlusconi”. Non certo quello di Falcone.

Un tradimento, non un’eredità

Chi invoca Falcone per giustificare la riforma odierna nella migliore delle ipotesi sbaglia. Perché tutti gli atti, i testi, le testimonianze raccontano l’opposto: che Falcone e Borsellino difendevano una magistratura unitaria, indipendente, coesa. Un pubblico ministero libero di indagare anche sul potere. Un giudice che potesse comprendere le dinamiche dell’accusa. Una giustizia che non fosse selettiva, ma obbligata a cercare la verità, anche quella a favore dell’imputato.

Separare le carriere, oggi, significa isolare il Pm, renderlo più debole, assoggettarlo all’esecutivo, politicizzare le inchieste. Significa rovesciare il modello costituzionale del 1948, costruito proprio per evitare che accadesse quanto oggi si vuole legalizzare. Significa, in sintesi, cancellare il lascito di chi per quella indipendenza ha perso la vita.

Basterebbe una lettura onesta dei fatti per non invocarli più “nel proprio nome”.