Felici e obbedienti verso il potere. Come cambiano le dinamiche del dominio. L’ultimo saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han

Felici e obbedienti verso il potere. Come cambiano le dinamiche del dominio. L’ultimo saggio del filosofo coreano Byung-Chul Han

Viviamo ormai in una biosfera che ha sempre più le peculiarità di un Super-organismo di tipo tecno-economico e tecno-spettacolare che incessantemente sviluppa e svilisce le nostre coscienze, e di cui il sistema informativo è cassa toracica e cuore battente. Se ne accorge fin troppo bene il filosofo coreano Byung-Chul Han in questa sua ennesima vibrante opera fortunata in Italia dal titolo Che cos’è il potere? (Nottetempo, pagg. 176, euro 17), dove ci spiega – in una sorta di apologo filosofico i cui protagonisti sono Ego e Alter – che costrizione, violenza fisica e sopraffazione sono, tutto sommato, i volti sfigurati e arcaici del dominio, evoluto ormai verso dinamiche molto più soft, sfumate, discrete, di facile accesso e di indolore acquisizione.

Seguendo una linea storica che parte da Hegel e conduce verso Luhmann, Heidegger, Agamben, Foucault, Han ci fa capire che, per il Potere stesso, intimidazione e minaccia sono armi alquanto spuntate e di corto respiro, poiché la vera lungimiranza di chi vuole controllare le volontà altrui si manifesta nell’elemento discorsivo, nella sua ”eloquenza”, nel dire le cose, nel tracciare i confini della percezione generale, le scale valoriali, le prospettive storiche, nel ridurre al minimo i parossisimi rivoltosi e anti-sistema, nel fomentare l’“enfasi” del sì verso se stesso, piuttosto che una recalcitrante obbedienza, piuttosto che un livoroso no a ciò che proviene dall’alto come obbligo a taluni comportamenti.

Servono la pax sociale, il mantenimento dello status quo, la conservazione delle oligarchie, l’avanspettacolo della cultura, la transumanza perenne delle persone-gregge verso i Grandi Pastori del consenso, e per fare questo necessitano l’infantilizzazione dei format dell’industria culturale, la povertà dei contenuti, la velocità e rapacità dell’esternazione politica, la letargia del popolo che non vede alternativa all’urlo e all’applauso. Il presente diventa un’ontologia di moniti e monitor, un Panopticon orizzontale dove più ci si muove, si respira e si compra, più si coibenta la realtà.

È così diverso tutto questo dalle narrazioni degradate che costellano oggigiorno la nostra quotidianità? Alla Derrida allora, servirebbe una sorta di “auto-immunità” del potere stesso, una sua “auto-abolizione”, il recupero di un “prima”, universale, egualitario e aperto realmente alle differenze e alla molteplicità, ovvero di una dimensione che recalcitra a farsi ossidare per sempre dalla sovranità locale e dagli interessi di casta, e che può essere finalmente svelata solo in corrispondenza di lacerazioni creative che il Potere non potrà inesorabilmente più bendare e suturare.