Fibre ottiche e voti di scambio: la ‘ndrangheta vuole il Lazio

di Nicoletta Appignani

Dalla Calabria al Lazio. Dal Lazio all’Emilia Romagna. E dall’Emilia alla Lombardia. La ‘ndrangheta si espande e si infiltra ovunque: negli appalti sul rifacimento dell’asfalto, in quelli sulle fibre ottiche e ancora nello smaltimento dei detriti post-alluvione. Criminali che non si fermano davanti a nulla, che minacciano i vivi e lucrano sui morti. La ‘ndrangheta raggiunge cittadini e politici, estromette le aziende che “non ci stanno”. E lentamente si allarga fino a diventare un fenomeno nazionale, che riguarda ogni persona da vicino. Nel mirino dell’operazione Lybra, portata a termine ieri dalla Dda di Catanzaro, ci sono i Tripodi, un clan molto influente nel Vibonese, legato ai Mancuso di Limbadi. Sono state 24 le persone arrestate con l’accusa di associazione a delinquere, 19 le aziende coinvolte e 45 gli immobili sequestrati, per un valore complessivo di 40 milioni di euro.

Tra Roma e Milano
Nella Capitale la ‘ndragheta effettua due tentativi, che non vanno a buon fine. Il primo è quello di aggiudicarsi un appalto da 600 milioni di euro del Comune di Roma, quello sulle fibre ottiche per la videosorveglianza. La manovra non riesce ma il clan Tripodi non frena le sue mire espansionistiche. Il secondo tentativo è quello di avvicinare qualcuno dell’entourage dell’ex vice presidente del consiglio regionale del Lazio Raffaele D’Ambrosio, che nel 2010 è candidato al Consiglio regionale della Pisana. La proposta degli uomini della cosca è quella di garantire voti in cambio di cancelli aperti sugli appalti. Ma secondo le indagini fin qui svolte, D’Ambrosio avrebbe rifiutato. Non solo. Dalle carte emergono anche i rapporti degli imprenditori mafiosi con l’ex consigliere regionale dell’Idv del Lazio, Vincenzo Maruccio, già finito in carcere per la vicenda dei fondi regionali al gruppo. Tentativi a vuoto, questi, che non fermano la ‘ndrangheta, intenzionata comunque a “sistemarsi” anche sul territorio romano. Infatti tra i beni sequestrati dai carabinieri del Comando provinciale di Vibo Valentia, insieme ai colleghi della guardia di finanza, ci sono il bar capitolino Ritrovo Dolce Vita di viale Giulio Cesare e un bar di via Plauto, entrambi coinvolti nell’ambito dell’inchiesta sull’ala economica della cosca Mancuso di Limbadi, che ieri mattina ha portato all’arresto di una ventina di imprenditori. Tra le città coinvolte nell’inchiesta ci sono anche Brescia e Milano: a San Vittore Olona, nella provincia meneghina, è stato sequestrato il locale Blue Moon Cafè.

Rapporti con la massoneria
Oltre al desiderio di acquisire appalti pubblici nel Lazio, sembra che i Tripodi coltivassero legami anche con la massoneria. Secondo gli investigatori, Francesco Comerci, titolare della società Edil Sud arrestato ieri, sarebbe stato un prestanome del clan vibonese. E sarebbe stato proprio lui a trovare un contatto a Roma con Paolo Coraci, il fondatore di una loggia massonica e del movimento politico “Liberi e Forti”.

Dopo l’alluvione
Nelle terre calabresi della ‘ndrangheta, dove il potere delle cosche è più forte e i “no” sono una risposta inaccettabile, il clan Tripodi di Porto Salvo, frazione di Vibo Valentia, avrebbe lucrato anche su una tragedia. Secondo gli inquirenti infatti, il clan avrebbe pilotato le gare d’appalto dei lavori del post alluvione del 2006 a Vibo Marina, quella che mise in ginocchio le Marinate di Vibo provocando 3 morti, 90 feriti e danni per ben 200 milioni di euro. La gara d’appalto inizialmente se la sarebbe aggiudicata regolarmene una società, che però alla cosca non stava a genio. Da qui l’intervento, prima con un subappalto e poi con l’imposizione dei propri macchinari e del proprio personale. Non solo. In alternativa ai subappalti, le imprese aggiudicatarie dei lavori avrebbero dovuto pagare una tangente del 5% sull’ammontare dell’intero appalto. Una mazzetta definita dai Tripodi come “tassa di legge” e che per la Dda di Catanzaro dimostrerebbe il “ferreo controllo” del territorio da parte del clan. Neanche a dirlo, la ‘ndrangheta seguiva i lavoro a modo suo, ovvero smaltendo i detriti direttamente in mare. Oltre al danno quindi, la beffa dell’inquinamento. Ma non è finita qui. Anche la responsabile dell’ufficio di gestione del Consorzio di sviluppo industriale di Vibo Valentia, Maria Alfonsa Farfaglia, è finita in manette. La donna è accusata di aver favorito l’assegnazione diretta di lavori pubblici a ditte vicine alla famiglia Tripodi.