Francesca Albanese, la delegittimazione come metodo: processo in tre fasi per neutralizzare i suoi rapporti alla fonte

Dagli attacchi personali alle sanzioni economiche: così si colpisce la relatrice Onu per rendere irrilevanti i suoi rapporti su Gaza

Francesca Albanese, la delegittimazione come metodo: processo in tre fasi per neutralizzare i suoi rapporti alla fonte

Ma davvero sono solo polemiche quelle contro Francesca Albanese? Non proprio. Bisogna partire dall’inizio per provare a fare un po’ di chiarezza. Nel maggio 2022 Francesca Albanese assume l’incarico di Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati.

È un mandato strutturalmente esposto allo scontro politico: unico incarico geografico a tempo indeterminato, destinato a durare fino alla fine dell’occupazione israeliana, con il compito esplicito di indagare le violazioni della potenza occupante. In questa cornice, la reazione ostile era più che prevedibile, praticamente scontata. Ma quello che si è dispiegato nei tre anni successivi segue invece una traiettoria diversa: una strategia coerente, progressiva, riconoscibile, che non mira a contestare i rapporti ma a svuotare di legittimità chi li produce.

La delegittimazione di Albanese procede per accumulo. Ogni passaggio prepara il successivo, ogni attacco rende plausibile quello dopo. Non è una polemica. È un’architettura.

Il meccanismo della delegittimazione sistemica

Il primo livello è reputazionale. La campagna prende avvio con la riesumazione di un post social del 2014, scritto durante l’operazione militare israeliana “Margine di Protezione”. L’operazione è condotta in modo sistematico da organizzazioni come UN Watch, diretta da Hillel Neuer, e rilanciata da network affini come NGO Monitor e International Legal Forum.

Una frase infelice, già chiarita e corretta dalla stessa Albanese, viene isolata dal contesto e trasformata in prova permanente di antisemitismo. Il tempo trascorso, il chiarimento successivo, la distinzione tra critica politica e odio antiebraico diventano irrilevanti. L’obiettivo è fissare un’etichetta, a nessuno interessa realmente discutere del contenuto. E così l’etichetta rimane, come un’ombra, la prima. Missione compiuta. 

Il secondo livello è mediatico e politico. I dossier prodotti da queste Ong vengono amplificati da diverse testate fino a diventare argomento di interrogazioni parlamentari e richieste formali di rimozione. Negli Stati Uniti la pressione arriva fino a dichiarazioni pubbliche di funzionari e parlamentari; in Europa coinvolge direttamente governi come quelli di Germania e Francia, che nel 2024 sollecitano chiarimenti al Segretario generale Onu António Guterres. La critica si sposta definitivamente dal merito dei rapporti alla presunta inaffidabilità morale della Relatrice. In questa fase il nome di Albanese viene reso “tossico”: chi la invita, chi la ascolta, chi la difende è a sua volta sospetto.

Il terzo livello è istituzionale. Israele le nega l’accesso ai Territori occupati, consolidando una prassi già applicata ai predecessori Richard Falk e Michael Lynk, ma estendendo l’ostracismo anche dopo il 7 ottobre 2023. Negli Stati Uniti la pressione diplomatica si traduce in un salto di qualità: nel luglio 2025 il Dipartimento del Tesoro inserisce Albanese nella lista Ofac – Specially Designated Nationals, attivando l’Executive Order 14203, lo stesso strumento usato contro la Corte penale internazionale. È la criminalizzazione finanziaria di un mandato ONU.

Un protocollo collaudato per rendere irrilevante chi indaga

Dentro questo schema si inserisce il caso italiano. Nel dicembre 2025, dopo incontri con studenti in scuole superiori toscane per presentare il libro “Quando il mondo dorme”, il ministero dell’Istruzione dispone ispezioni ministeriali citando articoli di stampa e ipotizzando profili di reato. L’innesco arriva da una campagna mediatica di alcuni organi di stampa di area centrodestra, rilanciata politicamente dalla Lega. La sequenza è lineare: attacco mediatico, reazione politica, intervento amministrativo. L’autonomia scolastica viene sospesa in nome di un controllo che non riguarda la didattica ma il contenuto politico di una voce ritenuta scomoda.

L’effetto va oltre il singolo episodio. Anche in assenza di sanzioni formali, l’ispezione produce un messaggio chiaro: invitare Albanese comporta un rischio. Il procedimento diventa esso stesso punizione, deterrente, avvertimento preventivo rivolto a dirigenti, docenti, amministrazioni locali che le avevano conferito cittadinanze onorarie.

Nel frattempo la pressione si estende alla sfera privata. UN Watch apre un fronte contro il marito di Albanese, Massimiliano Calì, economista alla Banca Mondiale, accusandolo di conflitto di interessi per precedenti consulenze con l’Autorità nazionale palestinese e chiedendone pubblicamente il licenziamento al presidente Ajay Banga. Anche qui il messaggio è esplicito: il prezzo del mandato ricade anche sui familiari.

II punto di rottura arriva con il rapporto Onu del 2 luglio 2025, “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”, in cui Albanese cita un elenco di aziende per il loro ruolo economico e tecnologico nell’occupazione e nella guerra a Gaza. Quando l’analisi tocca le corporation e i flussi finanziari globali, la risposta diventa immediata e sproporzionata. Neutralizzare la fonte è la soluzione più veloce e più comoda. 

E siamo a oggi. Non si tratta solo di Francesca Albanese: la sua vicenda mostra un modello ripetibile. Scavo nel passato, etichettatura morale, isolamento fisico, lawfare, pressione economica, attacco ai familiari. Una sequenza che trasforma il diritto internazionale in un terreno ad alto costo personale. Il messaggio è rivolto al futuro: chi esercita quel mandato sa cosa lo aspetta. Non per quello che dirà, ma per il solo fatto di dirlo.