Fusione Anas-Ferrovie, l’ultimo bidone di Stato. Il binario porta dritto a Renzi

L’ultima trovata viene descritta dai sostenitori come una sorta di genialata. Al centro l’ipotesi di unire Anas e Ferrovie dello Stato. Ecco cosa c'è dietro

L’ultima trovata in tema di partecipate statali viene descritta dai sostenitori come una sorta di “genialata”. Al centro della scena c’è l’ipotesi di unire Anas e Ferrovie dello Stato, progetto che secondo gli entusiasti amministratori delegati delle due società farà sorgere un maxigruppo della “mobilità integrata”. I paroloni, come al solito, sono affascinanti. Se si scava però dietro l’origine e lo sviluppo del piano, si scopre che il rischio bidone è a dir poco alto, con effetti sulle tasche dei contribuenti-consumatori. Innanzitutto la paternità del progetto. Nessuno lo dice, ma il dossier era arrivato per la prima volta sul tavolo di Yoram Gutgeld, commissario alla spending review e uno dei consiglieri economici di Matteo Renzi. A recapitarlo è stata una banca d’affari estera, l’americana Citigroup, come tutte le altre a caccia di laute commissioni per le idee più strampalate. I due amministratori delegati, Renato Mazzoncini per le Fs e Gianni Armani per Anas, in questi giorni dicono di credere fermamente all’ipotesi. Naturalmente non dicono che le rispettive società hanno problemi a non finire.

I NODI – Si prenda l’Anas, che nel piano dovrebbe essere conferita a Fs. L’obiettivo qui è di portare la società che gestisce 25 mila chilometri di strade fuori dal perimetro della pubblica amministrazione, dove pesa per 2 miliardi l’anno. L’unico modo per farlo, però, è provare a far ottenere all’Anas ricavi di mercato. Ora come ora, infatti, la società fattura più di 700 milioni di euro, la maggior parte dei quali arrivano dai canoni pagati dai concessionari autostradali. Roba che serve solo a coprire i costi. Per gli investimenti, come del resto Armani ha fatto capire più volte, l’azienda è infatti costretta ad andare dalla politica col cappello in mano. A quanto filtra l’idea dell’Ad sarebbe quella di consegnare Anas a una sorta di modello tariffario, all’interno del quale a pagare sono i consumatori che effettivamente utilizzano l’infrastruttura. In pratica è un po’ il modello Terna, il cui fatturato è alimentato dalle imprese che usano la rete elettrica e che poi scaricano il costo nella bolletta dei consumatori. Si tratta del cosiddetto business regolato. Del resto Armani ha molto a cuore Terna, visto che prima di arrivare all’Anas era Ad di Terna Rete Italia e visto che fino all’ultimo ha provato a diventare ad della società della rete elettrica, bruciato alla fine dal fiorentino Matteo Del Fante.

Ma siamo sicuri che questa “riconversione” del fatturato di Anas sia possibile? Perché sul piatto potrebbero finire altre ipotesi di alimentazione dei ricavi della società, per esempio le onnipresenti accise sulla benzina oppure il bollo auto (al di là delle dichiarazioni renziane su una sua abolizioni). Per carità, tutti dicono che l’operazione deve essere fatta senza oneri per il contribuente. Ma è la classica frase che spesso a valle nasconde il salasso.

ROTAIE BOLLENTI – Dall’altra parte c’è Fs, il cui Ad Mazzoncini per ora ha solo il merito di aver rilevato l’azienda pubblica di trasporto locale di Firenze (all’epoca di Renzi sindaco), quando era Ad di Busitalia. Sono almeno due anni che Fs deve essere privatizzata/quotata. Di recente la pratica è stata spostata al 2017. Del resto il gruppo ancora non è riuscito a cedere Grandi Stazioni (anche se le offerte vincolanti dovrebbero arrivare a fine mese), nonostante i profumati assegni staccati all’advisor Rothschild e il piano industriale calato a fine 2014 dalla McKinsey. Per non parlare del fatto che il Cda di Fs è pieno di lobbisti-amici degli amici che con progetti di “mobilità integrata” non sembrano avere una gran dimestichezza: da Federico Lovadina, avvocato toscano passato per lo studio legale Tombari (dove si fece le ossa anche Maria Elena Boschi), a Giuliano Frosini, lobbista della ex Lottomatica.

Tw: @Ssansonetti