Giacalone: Telecom può farcela. Basta però continuare a svuotarne le casse

di Vittorio Pezzuto

L’assemblea convocata dagli azionisti di minoranza di Telecom Italia, non ha revocato il Consiglio d’amministrazione. «Ma senza scossoni o novità la strada di Telecom Italia porta comunque verso il tramonto» osserva Davide Giacalone, saggista e tra i maggiori esperti di telecomunicazioni. «L’azienda è infatti già stata ampiamente depredata e scassata. Così procedendo il futuro sarà nero».
Si riferisce all’inchiesta penale avviata dalla procura di Roma?
«No, quello mi pare il problema minore. Non è la prima inchiesta che coinvolge Telecom, con ogni probabilità non sarà l’ultima. Ma l’inchiesta manifesta la sintomatologia del collasso, perché non si riferisce alle attività industriali di Telecom ma alle manovre finanziarie».
Ed è più o meno grave?
«Se è grave lo vedremo. Un’inchiesta (così come eventuali rinvii a giudizio e condanne non definitive) non significa mica che ci siano dei colpevoli. A occhio ci separano una decina d’anni dal saperlo. Sta di fatto che Telecom dovrebbe essere un operatore delle comunicazioni, mica una società finanziaria. Che ne sarà fra dieci anni, fra dieci mesi?».
Lei cosa immagina? Cosa potrà essere Telecom? Potrà tornare a essere un grande (e sano) player internazionale?
«Dipende. Al momento è solo un oggetto d’interessi finanziari. Ci sono soci che vogliono scappare da Telco (la società che detiene il 22% delle azioni) e soci bancari che fanno fatica a scappare perché non solo ci hanno già rimesso molti soldi, ma molti ne hanno prestati agli spagnoli di Telefonica. Stiamo assistendo a una gara a chi scappa con meno danni. Poi, però, c’è quello di cui nessuno si occupa: le telecomunicazioni. Visto da questa prospettiva, il futuro potrebbe essere diverso perché non solo l’Italia resta un mercato assai ricco ma la tecnologia consente di portare la concorrenza in casa altrui senza affrontare investimenti iniziali troppo consistenti, come in passato. La sorte di Telecom non è segnata, non c’è un destino ineluttabile. Tutto sta a considerarla un’impresa da far produrre, non una cassa da finire di svuotare».
Chi l’ha svuotata?
«Tutto inizia con la peggiore privatizzazione possibile, praticamente una svendita. Allora Telecom era ancora una multinazionale ricca e con pochissimi debiti, nata e cresciuta con i soldi degli italiani: quelli che pagavano le tasse e consentivano gli investimenti pubblici; quelli che pagavano bollette fuori mercato; quelli (e la cosa dovrebbe far passare un brivido di sdegno) emigranti in Argentina e Brasile, che con i loro soldi fondarono la società per posare i cavi e collegarli a casa: Italcable. Non solo fu venduta malissimo, ma anche le poche norme messe a salvaguardia di un patrimonio collettivo furono poi travolte dalla scalata di Colaninno, Gnutti, Consorte, Sacchetti e compagnia sconosciuta. Lì comincia la storia del debito patologico, perché Telecom fu scalata in violazione delle leggi, in violazione delle norme che presiedevano all’Opa, e con i soldi di Telecom. Quello fu il primo passaggio di locuste. Assai voraci. Poi mollarono, cedendo la proprietà alla Pirelli di Tronchetti Provera. Questi ebbe due meriti: riportò la proprietà in Italia, perché la scalata era stata fatta da una società lussemburghese e, ancora oggi, non ne conosciamo tutti i soci; rilanciò gli investimenti. Eppure anche con questa gestione i debiti aumentarono per riprendere in pancia Tim, che generava cassa. Continuò la spoliazione, con la sottrazione degli immobili, finiti a Pirelli Real Estate».
E nessuno disse nulla?
«Questa è la cosa che mi fa più arrabbiare: dicemmo e scrivemmo tutto mentre accadeva. Furono le autorità responsabili a essere irresponsabili. Del resto, stiamo assistendo ad una vendita forse peggiore di quella, e riguarda la Banca d’Italia. Anche in questo caso, quel che c’era da dire è stato detto. I sordi non hanno alibi».
Torniamo all’oggi: la società può ancora salvarsi?
«Sì, se la si pensa come società di telecomunicazioni».
La rete di Telecom è strategica per l’Italia? Si giustificherebbe un intervento pubblico?
«La rete è strategica per qualsiasi Paese, ma intendiamoci: significa che è vitale, non che se ne debba avere la proprietà. L’interesse dell’Italia è che ci siano le autostrade digitali diffuse nell’intero Paese, non che la proprietà sia italiana o pubblica. Quindi, non prendiamoci in giro: se questa gnagnera della strategicità nasconde la voglia di comprare con soldi pubblici quello che fu creato con soldi pubblici e poi distrutto per far fare soldi ai privati, la risposta è: no, abbiamo già dato. Se Telecom è in grado di fare il suo mestiere, bene. Se non è in grado non è che si debbano pagare i soci per riavere la rete ma si deve toglierle quel che non sa amministrare».
Un esproprio?
«L’esproprio è quello che subimmo quando il governo e la Consob non seppero o non vollero fare il loro dovere. La rete è di Telecom perché le deriva dal monopolio, che non esiste più. Quindi si tratta di fare un’operazione non da soviet ma da capitalismo decente, togliendo a chi non sa fare per dare a chi lo sa fare. In cambio di soldi, non di omelie e bislacchi ragionamenti sulle “operazioni di sistema”. Chi sa faccia, e chi non sa se ne vada».
Quindi lei vede bene la cacciata degli spagnoli?
«Per nulla. Gli spagnoli di Telefonica sono alla guida di Telecom da anni, sicché non vedo il perché dell’odierno agitarsi. Chi vuole le telecomunicazioni italiane deve investire e far crescere la rete, seguendo tempi e modi collaudati in Europa. Chi, invece, vuol solo prendere, sarebbe dovuto essere respinto dalla coscienza civile. In assenza si passa al tavolaccio autoptico della giustizia penale».