L’indirizzo segreto, il nuovo lavoro e lo stipendio da collaboratore: la nuova vita di Giovanni Brusca

'U Verru Giovanni Brusca è stato scarcerato per fine pena e le norme volute da Giovanni Falcone, la legge sui collaboratori di giustizia

L’indirizzo segreto, il nuovo lavoro e lo stipendio da collaboratore: la nuova vita di Giovanni Brusca

Giovanni Brusca è un uomo libero. ‘U Verru è stato scarcerato per fine pena e grazie alle norme volute da Giovanni Falcone, ovvero la legge sui collaboratori di giustizia che prevede sconti di pena a chi fa rivelazioni significative per le indagini sulla mafia. E proprio per questo oggi che deve ricominciare la sua vita resta un obiettivo di Cosa Nostra. Che vuole fargli pagare l’essersi pentito.

L’indirizzo segreto, il nuovo lavoro e lo stipendio: la nuova vita di Giovanni Brusca

Per questo da uomo libero Giovanni Brusca dovrà guardarsi le spalle. Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera ricorda oggi che il tribunale della mafia sconti non ne fa, e non c’è investigatore di ieri e di oggi che non sia certo del rischio che accompagnerà Brusca fino alla fine dei suoi giorni. Ovvero quello di incontrare qualcuno, fosse anche l’ultimo canazzo di bancata (espressione siciliana per indicare persone di infimo livello) con qualche aspirazione da boss, che voglia fargli pagare il suo tradimento.

Per questo Giovanni Brusca scarcerato vivrà un periodo di libertà vigilata con obbligo di firma settimanale, orari controllati e un pernottamento fisso. E si sceglierà un luogo dove vivere in sicurezza. Una casa con un indirizzo segreto da non rivelare a nessuno. Senza che nessuno possa svelarne l’identità. E poi, aggiunge il quotidiano, si cercherà di trovargli un lavoro. Per integrare lo “stipendio” previsto dal programma di protezione a cui è ancora affiliato. Sperando che sia sufficiente per salvargli la vita.

La mafia è cambiata da quando lui era un semplice affiliato alla famiglia di San Giuseppe Jato e poi fedelissimo di Totò Riina. Con la reggenza di Matteo Messina Denaro sono finiti i tempi della coppola e sono cominciati quelli dei colletti bianchi. Non ci sono più i corleonesi che organizzano carneficine e arrivano fino a pensare di poter ricattare lo Stato. O meglio: quelli che ci sono hanno cambiato pelle prima di cambiare vita. Ma il richiamo della terra è sempre lì. E potrebbe suonare prima o poi anche per lui.

Perché Giovanni Brusca è libero

È stata ieri Maria Falcone a spiegare perché Giovanni Brusca è libero. “Umanamente è una notizia che mi addolora – ha detto la sorella del giudice assassinato proprio da Brusca -, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso. Ogni altro commento mi pare del tutto inopportuno”.

Il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, poi modificato il 13 febbraio 2001, n. 45 definì la figura del collaboratore di giustizia. Sul modello della legge di Francesco Cossiga che offriva benefici ai terroristi che facevano i nomi dei complici. La legge dice che c’è un tempo limite di sei mesi per le dichiarazioni dal momento in cui si è manifestata la volontà di parlare. I benefici non arrivano subito, ma solo dopo che accurate verifiche ne abbiano riscontrato l’attendibilità. Il pentito dovrà scontare comunque un quarto della pena, per chi è condannato all’ergastolo è di minimo 10 anni. La protezione durerà fino al cessato pericolo.

Come Giovanni Brusca divenne uomo d’onore

Come Giovanni Brusca è diventato uomo d’onore lo ha raccontato lui stesso, qualche anno fa, in un’intervista per un documentario franco-tedesco sui corleonesi. Ovvero su quella banda di paese che scalò i vertici della mafia a colpi di droga e omicidi. Senza risparmiare nessun traditore. E che ha visto il suo maggior esponente, Totò Riina, morire in carcere dicendo fino all’ultimo di essere un contadino e la vittima di un errore giudiziario.

Fu proprio Totò Riina ad affiliare ‘U Verro davanti al padre Bernardo Brusca. Che era già un capomafia a San Giuseppe Jato. Ma per le regole di Cosa Nostra non aveva alcun diritto sul figlio. «Mio padre mi dice “entra che Riina ti vuole parlare”. Entro, Riina mette sul tavolo un coltello e una pistola incrociati, una santina e un ago, e mi dice “questa è un’organizzazione in cui siamo tutti fratelli, un’associazione che ha le sue regole, se ci si separa ci si rimette la vita”».

Così Giovanni Brusca divenne uomo d’onore, e lo rimase fino a quando non finì in arresto nel 1996 quando le forze dell’ordine lo beccarono in una villetta nei pressi di Agrigento. Una volta finito in carcere i tempi di pentimento furono rapidi. Troppo rapidi, visto che prima venne smascherato un falso pentimento concordato in precedenza per delegittimare l’Antimafia.

Cosa ha scoperto la magistratura grazie a Brusca pentito

Ancora il Corriere della Sera ricorda che nel giro di qualche settimana Brusca diede agli uomini della Squadra mobile palermitana guidati da Luigi Savina (futuro vicecapo della polizia) le indicazioni utili ad arrestare il boss Carlo Greco; e subito dopo Pietro Aglieri, boss in ascesa e salito in cima alla lista dei ricercati.

Erano le garanzie di affidabilità richieste dagli investigatori, che convinsero i magistrati della sua attendibilità. È in quel momento che si salda il patto tra il killer e lo Stato: indicazioni per ottenere arresti e dichiarazioni per infliggere condanne (che sono arrivate a centinaia, come le vittime assassinate) in cambio di protezione e sconti di pena. Il suggello è arrivato con il verdetto che ha tramutato l’ergastolo in trent’anni, una pena a termine giunta a compimento.

Ma l’assassino che ha fatto esplodere la bomba di Capaci e ha dato l’ordine di strangolare Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito che lo accusò della strage) ora dovrà ricostruirsi una nuova vita. Senza la moglie, da cui ha divorziato dopo l’arresto. Ma con un figlio, all’epoca di 5 anni e oggi ultratrentenne. Il Servizio centrale di protezione, l’ufficio che si occupa dei collaboratori di giustizia lo aiuterà economicamente. Per rispettare quel patto fatto con lo Stato 25 anni fa. Come avrebbe voluto Falcone.