L’agguato a Giuseppe Antoci, tra la torta dei fondi Ue e la mafia che torna agricola. Intervista al professore Enzo Ciconte

Su agricoltura e allevamenti ci sono in ballo milioni di fondi europei. Sull'attentato a Giuseppe Antoci, la nostra intervista a Enzo Ciconte.

Sembra un attentato degli anni Cinquanta, ma su agricoltura e allevamenti ci sono in ballo milioni di fondi europei e le mafie non hanno mai mollato i campi, anche come segno di potere. Spiega così il tentativo di ammazzare Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, Enzo Ciconte, massimo esperto italiano di ‘ndrangheta e docente di Storia delle mafie all’Università di Pavia.

La mafia torna a sparare dopo un lungo silenzio, ma lo fa per questioni agricole e con modalità quasi arcaiche. Almeno questa è l’apparenza, tra mucche, mulattiere e fucili a pallettoni. E’ così?
Non credo proprio. Innanzitutto bisogna sottolineare che la mafia l’agricoltura non l’ha mai abbandonata e che l’agricoltura di cui parliamo oggi è quella avanzata, non certo quella arretrata degli anni Quaranta-Cinquanta. Con i fondi europei, adesso girano tanti soldi e Cosa nostra difende i suoi interessi. Ricordo che qualche anno fa un noto imprenditore veneto sbarcò in Sicilia e dovette ingaggiare il figlio di un boss nella sua azienda vinicola.

Era Gianni Zonin, oggi più noto come banchiere…

Esatto. Il fatto è che la mafia non ha mai abbandonato l’agricoltura.

Che cosa ha fatto Antoci per farsi sparare?

Ha dato fastidio alle cosche. Ha chiesto la certificazione antimafia alle ditte e ha bloccato alcuni contratti.

Lui sostiene di aver preoccupato anche la ‘ndrangheta, perché in Calabria volevano gestire i parchi come fa lui in Sicilia.

Sì, sicuramente ha dato fastidio anche alla ‘ndrangheta. Del resto sotto questo profilo Messina è provincia di Reggio Calabria. Battute a parte, gli ‘ndranghetisti hanno sempre avuto un’opzione sulla provincia più vicina. E comunque c’è un aspetto che spesso sfugge a chi è del Nord e magari è tentato di pensare a tutto in termini finanziari.

Quale?

Non ci sono soltanto i soldi, ma anche il potere e la sua esibizione. In Calabria c’è il fenomeno delle cosiddette vacche sacre, animali che pascolano liberamente e abusivamente dove capita, senza che nessun prefetto le faccia macellare e senza che nessuno le tocchi. Appartengono a famiglie della ‘ndrangheta, che non ci guadagnano nulla ma che in tale maniera affermano un potere che può quasi sembrare fine a se stesso. Come dire allo Stato: “Qui comando io e tu non entri”.

Si è verificata la stessa dinamica nel messinese?

No, nei Nebrodi lo Stato è andato a rovinare degli affari, a togliere dei soldi veri alle cosche.

A proposito di affari, come vanno?

La mafia siciliana ha perso colpi e ha incassato parecchie batoste. Molti capi sono in galera e ci resteranno a lungo. In più fanno fatica ad arruolare nuove forze, specie dopo l’arresto di Bernardo Provenzano e la conclusione del ciclo dei Corleonesi. Ma per la ‘ndrangheta il discorso è diverso. Quello che succede in Calabria dura lo spazio di un mattino. C’è ogni anno un rilevante numero di morti ammazzati, ma non fanno notizia e si dimentica presto tutto quanto. In Sicilia è tutto diverso.

Sembra di capire che i calabresi giochino in un altro campionato

Eh sì, ormai è proprio così. La ‘ndrangheta è inserita nei veri canali internazionali della droga, ha una montagna di soldi e i mafiosi, per fare certi affari, devono passare da loro.