Giustizia troppo lenta. Ecco quanto incide l’inefficienza sull’economia del Belpaese

Quanto costano i ritardi della giustizia? Quanto incide l’inefficienza sull’economia reale del Belpaese? La ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del Belpaese? Una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro (realizzata su elaborazione di dati Cepej-Stat, Eurostat, Doing Business e Ministero della Giustizia) ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.

Un rapido confronto tra Paesi è possibile, ad esempio, grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa. Gli ultimi dati, riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania.

Il peso dell’arretrato si riflette anche nella minore capacità del nostro Paese di far diminuire l’indicatore della durata media dei processi: per noi fluttua attorno all’anno e mezzo a prescindere dal periodo di rilevazione. In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e hanno pochi eguali se si pensa che con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate ampiamente inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio (dati non sempre confrontabili tra Paesi, stanti le diversità esistenti tra i vari ordinamenti giuridici), mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi 3 anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

ImpresaLavoro prende poi in considerazione le ricadute squisitamente economiche dell’inefficienza giudiziaria, partendo dal punto di vista di un investitore internazionale. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa certamente da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario pesano, eccome, e sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti come il nostro. Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del PIL. Il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

L’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari individua infine in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese, con riferimento alle aree più disagiate. La stima è peraltro coerente con quanto rilevato in un report del Fondo Monetario Internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria.

“Il mercato genera selezione, obbliga a competere”, ha osservato Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. “Non c’è impresa privata senza il coraggio di rischiare. Non è così nella pubblica amministrazione, giustizia compresa, i cui operatori vengono stipendiati a fine mese indipendentemente dai risultati ottenuti. Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività. I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa del rilascio delle necessarie autorizzazioni nonché i sistematici ritardi nella definizione dei contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza. Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico”.