Ieri sì all’onorevole taglio, oggi no. La Casta rinnega se stessa e resiste. Più forte e trasversale il fronte del no al referendum. Non manca chi giurava di voler ridurre i parlamentari

Man mano che i giorni passano tanto a destra quanto a sinistra le voci contrarie al taglio dei parlamentari sembra crescano. Per quanto siano sparute, ciò che sorprende è che siano assolutamente bipartisan: intorno al referendum – non è un mistero – Forza Italia è totalmente spaccata, a sinistra tanti partiti extraparlamentari hanno già dichiarato il loro voto contrario (gli ultimi a parlarne chiaramente sono state le Sardine). Senza dimenticare che, per quanto ad oggi siano silenti, una fetta di Pd e Italia Viva potrebbe alla fine schierarsi per il no al taglio.

FALLIMENTI SU FALLIMENTI. Eppure tanti dubbi restano. A cominciare dal fatto che nei quattro passaggi parlamentari tanti onorevoli che oggi si dicono contrari, votarono a favore della riforma costituzionale. Non solo. Ciò che più fa pensare a una mera campagna politica contro il Movimento cinque stelle e null’altro è il fatto che nel corso degli anni chiunque – repetita iuvant: chiunque – ha provato a concepire riforme per tagliare il numero dei parlamentari. Tutte, però, puntualmente naufragate. C’è un dato oggettivo che rende chiaro, comunque la si veda, il risultato raggiunto in questa legislatura su spinta pentastellata. Dal 1983 ad oggi chiunque abbia annunciato una riforma sul taglio dei parlamentari, ha alla fine fallito. Qualcuno ci ha anche provato concretamente.

Altri ancora sono arrivati a un passo. Nessuno, però, ha raggiunto il fatidico traguardo al contrario di quanto fatto dai 5 stelle. Il primo tentativo risale al 1983 quando Camera e Senato approvarono la prima commissione bicamerale per le riforme costituzionali, allora presieduta dal liberale Aldo Bozzi, il quale presentò nella relazione conclusiva (nel 1985) due ipotesi di composizione del nuovo Parlamento: 514 deputati e 282 senatori la prima; 500-480 deputati e 250-240 senatori la seconda. Le diverse proposte di legge che vennero presentate sula scia della relazione, però, non vennero mai neanche calendarizzate.

Stesso tentativo venne portato avanti nel ’93 dalla seconda bicamerale, questa volta presieduta da Ciriaco De Mita e Nilde Iotti. L’idea era esattamente uguale a quella pentastellata (400 + 200) ma la fine anticipata della legislatura bloccò ogni progetto. E arriviamo così al 1997 con la terza bicamerale, alla cui presidenza sedeva Massimo D’Alema. Il progetto elaborato prevedeva un numero di deputati tra 400 e 500, più un Senato di 200 membri, ma da integrare con altri 200 rappresentati delle Regioni. Risultato? Nulla di fatto.

Arriviamo, così, al primo progetto andato quasi in porto: quello della “devolution” con il centrodestra di Silvio Berlusconi. La proposta conteneva, tra le altre cose, anche una riduzione dei deputati a 500 (più 3 deputati a vita al posto dei senatori e più 18 deputati eletti all’estero); i senatori, invece, scendevano a 252. Il taglio naufragò con tutta la riforma, bocciata dagli italiani nel referendum costituzionale del 25 giugno 2006.

Esattamente come capitato con l’ormai famosa riforma voluta da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi – bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016 – che, invece, “aboliva” il Senato sostituendolo con un consiglio di 100 rappresentati degli enti locali (più 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica). Niente di fatto neanche questa volta. Insomma, un tripudio di insuccessi portati a segno da buona parte dei partiti che oggi, spaccati, gridano allo scandalo. L’unico scandalo esistente, però, è il loro: quello della casta che rinnega se stessa provando a salvarsi per l’ultima volta.