Il grande Risiko delle nomine. Ecco chi sta correndo nella vera partita del potere. In ballo ci sono i vertici delle principali partecipate pubbliche

Mesi di appuntamenti e di lobbisti scatenati, e poi ieri c’è mancato poco che tutto questo lavoro andasse a ramengo. Se Matteo Renzi non avesse confermato in extremis l’appoggio alla coalizione di Governo, il trattamento per l’ex rottamatore sarebbe stato lo stesso riservato al suo omonimo della Lega, Matteo Salvini: si scordasse di toccare palla nelle prossime nomine ai vertici delle partecipate pubbliche. E d’altra parte, con un cinismo che in politica è la norma, l’idea di recuperare le poltrone destinate a Italia viva per darne la metà ai nuovi responsabili, considerati mille volte più affidabili, aveva cominciato a fare breccia. Tanto se a Renzi si dà cento, il giorno dopo troverà un altro pretesto per reclamare centouno, e come diceva Totò ogni limite ha la sua pazienza.

Fatto sta che in zona cesarini la frattura nascosta dietro l’alibi della prescrizione si è ricomposta e dunque adesso c’è speranza per tutti: per i manager e i consiglieri uscenti che sperano quasi tutti in una conferma e una moltitudine di aspiranti a subentrare, in nome delle clientele o del cambiamento. Per questo da settimane girano agenzie e pizzini tra addetti ai lavori, e su diversi giornali si cominciano a leggere articoli che in coda dovrebbero riportare l’indicazione “contenuto sponsorizzato da…”, tanto sono “telefonati” e privi di fondamento. In cima a questi “consigli per gli acquisti” ci sono tre figure che non possono essere in alcun modo confermate, e che ciò nonostante stanno facendo pesare anche sui media tutto il loro potere per non uscire di scena.

I tre sono l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, il presidente di Finmeccanica Leonardo, Gianni De Gennaro e l’amministratore delegato sempre di Finmeccanica Leonardo, Alessandro Profumo. Di tutti e tre leggiamo ovunque di una probabile riconferma o addirittura del passaggio con gli stessi galloni ad altra azienda controllata dallo Stato, ma se ciò accadesse non ci sarebbero pozzi abbastanza profondi da poter nascondere la vergogna di chi dovesse prorogarli. Così come in politica si parla di “impresentabili”, allo stesso modo questi tre sono indigeribili. Descalzi è imputato in un processo per corruzione internazionale, la moglie ha ricevuto commesse per centinaia di milioni dalla stessa Eni, e il suo ex capo degli affari legali, Massimo Mantovani, un fedelissimo, è al centro di un incredibile sistema di depistaggi della magistratura.

Nominato nel 2014 da Renzi e confermato nel 2017 da Gentiloni, sotto la gestione Descalzi va detto che il Gruppo ha macinato utili e dividendi agli azionisti, ma non ha fatto per niente quel salto in termini di sostenibilità e transizione energetica che l’attuale Esecutivo dice in ogni occasione di pretendere. Perciò non dovrebbero esserci dubbi sull’uscita, se non fosse che un possente circuito relazionale sta blandendo i decisori di ultima istanza.
A questo punto, ovviamente, il convincimento generale è che questa come tutte le altre nomine escano dal cilindro delle forze di Governo, a partire da quelle che contano di più nella maggioranza parlamentare: i Cinque Stelle e il Pd. Niente di più sbagliato, perché tutto il dossier nomine è in mano a tre soggetti: l’azionista, cioè il Ministro dell’Economia e Finanze, Roberto Gualtieri, il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il cosiddetto partito del Mef, composto dagli influenti dirigenti di via XX Settembre.

Ridimensionati, almeno per il momento, autentici king maker come Roberto Garofoli o Daniele Franco, appena trasferito in Bankitalia, il punto di riferimento è il direttore generale Alessandro Rivera, anche se i più accorti puntano all’ombrello sotto il quale tutti questi papaveri sono nati e cresciuti: l’immarcescibile Massimo D’Alema.
Solo dopo entrano in gioco il Movimento e la segreteria dem, dove l’ufficiale di collegamento con il segretario Nicola Zingaretti è il viceministro Antonio Misiani. A seguire la vicenda per il Movimento è invece il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro, particolarmente assistito dal suo consigliere economico Antonio Rizzo, e in sintonia con la viceministra Laura Castelli. In attesa degli Stati generali, che dovranno definire la nuova geografia dei 5S, Luigi Di Maio e tutti gli altri esponenti grillini di spicco sono in stand-by, mentre il reggente Vito Crimi lascia fare, così come l’uomo di riferimento per queste pratiche all’epoca del contratto gialloverde, Stefano Buffagni. Fatta questa premessa andiamo a vedere cosa bolle in pentola nelle singole aziende.

Descalzi indifendibile. Eni volti pagina.

Di Descalzi abbiamo appena detto. Resta da aggiungere che però non ci sono molti manager italiani in grado di dare garanzie ai grandi azionisti internazionali. Eni, per il ruolo che ha tradizionalmente in Libia, in altre parti dell’Africa, in Medio Oriente e nell’Est europeo, è una sorta di succursale dei nostri Servizi esteri, e pertanto è impensabile un capo azienda non italiano. I nomi più accreditati per prendere in mano il timone sono Francesco Starace, attuale numero uno dell’Enel e che vorrebbe restare dove sta, e Francesco Cao, alla guida di Saipem. Più defilata l’ipotesi di Marco Alverà, confermato l’anno scorso proprio da Conte alla guida di Snam, così come quella di Stefano Donnarumma, artefice di una serie di record nei risultati dell’Acea, l’ex municipalizzata di acqua ed energia di Roma, dove è arrivato nel 2017 chiamato dalla sindaca Virginia Raggi.

Sia Starace che Donnarumma hanno una caratteristica fondamentale che gli conferisce una marcia in più: hanno realizzato nelle loro attuali aziende azioni concrete di quel green new deal che oggi è l’unico punto fermo della politica industriale del nostro Paese. Sotto la lente ci sarebbero anche alcuni dirigenti interni al Gruppo, ma la logica di spezzare la linea di comando di Descalzi lascia loro poche possibilità. Chi sembra invece rassegnata a lasciare è la presidente Emma Marcegaglia, pure lei voluta da Renzi nonostante qualche conflitto d’interesse tra le attività di famiglia e il cane a sei zampe.

Più fonti rinnovabili. Starace verso un altro giro.

Si dice che quando il diavolo ti accarezza vuole l’anima, e questo è quello che molti pensano ogni volta che Renzi apre la saracinesca dei complimenti per Starace, manager portato proprio dall’attuale senatore di Scandicci alla guida del colosso elettrico. Sin dalla prima intervista in cui dava il via libera alla nascita dell’Esecutivo giallorosso, l’ex rottamatore ha blindato l’amministratore delegato e direttore generale dell’ex monopolista dell’energia. Una devozione che ai più avveduti è apparsa invece come il bacio della morte. In una logica di servizio al Paese, Starace come tutti gli altri capo azienda ha mostrato lealtà all’azionista Tesoro e a Palazzo Chigi, indipendentemente dal cambio di scenario politico prima con i 5S e Lega e adesso con i 5S e dem. Per questo, chi più chi meno, questi manager si sono dovuti de-renzizzare, facendo sì che il dominus del loro ruolo se la sia legata al dito e adesso voglia restituire la cortesia.

Per Starace, in particolare, abbracciare le linee guida in tema di sostenibilità ambientale che stanno particolarmente a cuore ai Cinque Stelle è stato veloce e facilissimo, avendo costruito in tempi non sospetti Enel Green Power, e puntato sulla completa decarbonizzazione della produzione molto prima di tutti i grandi competitor europei. Sorprendenti anche i risultati economici e finanziari, dove il debito resta alto, ma i volumi sono arrivati a superare gli 80 miliardi di euro, e gli azionisti sono stati sempre ben remunerati. Difficile perciò non concedergli il terzo mandato a cui aspira, a meno che in un’ottica quasi di civil servant il Governo non gli chieda di replicare lo stesso lavoro in Eni. Se così fosse, si aprirebbe uno spiraglio per il country manager in Italia, Carlo Tamburi, considerato però molto “renziano”.

Tra i profili studiati ci sarebbero anche quelli di altri dirigenti interni, nella stessa logica seguita per le ferrovie, dove si è puntato a sorpresa su un profondo conoscitore della macchina, com’è Gianfranco Battisti. Per Enel, ancor più che per l’Eni, resta in pista l’ipotesi di Donnarumma, mentre poco considerata ma non da escludere c’è la possibilità che torni con nuovi galloni l’ex capo del finanziario Luigi Ferraris, attualmente Ad e direttore generale di Terna, dove ha fatto molto bene e potrebbe dare una mano ad abbattere quegli oneri di sistema che rendono le nostre bollette elettriche tra le più alte in Europa e indignano i consumatori. Verso l’uscita la presidente Patrizia Grieco. (1 – Continua)