Il miraggio delle dismissioni pubbliche

di Marco Quarantelli per Il Fatto Quotidiano

Per riassumere 20 anni di storia basta poco: una serie infinita di annunci, tentativi falliti, scarsissimi risultati. Una storia fatta essenzialmente di proclami, quella delle dismissioni del patrimonio immobiliare dello Stato. La vendita in blocco di palazzi, caserme, fari e terreni di proprietà pubblica è stata indicata da ogni governo come la panacea per fare cassa e contrastare l’aumento del debito pubblico. L’ultima a rilanciare l’idea è stata il ministro Pinotti: “Siamo pronti a vendere 385 tra caserme e presidi”, spiegava il 16 marzo la titolare della Difesa. Ma i tempi della burocrazia, procedure farraginose e un mercato immobiliare paralizzato dalla crisi rendono l’impresa quasi disperata: nonostante le promesse di vendite miliardarie fatte dai vari governi, negli ultimi 5 anni il Demanio ha dismesso beni per soli 660 milioni.
Dalle prime leggi degli anni ’90 agli ultimi annunci del governo Renzi, le dismissioni hanno inanellato una lunga serie di progetti falliti, società di gestione aperte e subito chiuse, richiami della Corte dei Conti, beni conferiti e mai finiti sul mercato o rimasti invenduti. Negli ultimi 10 anni le vendite degli immobili degli enti alle aste pubbliche sono andate a picco: se nel 2003 il 60% si era concluso con una vendita, nel 2012 la percentuale era scesa al 17%. Con i prezzi che sono crollati e i costi di gestione che sono lievitati, finendo per gravare ulteriormente sul debito.

CASERME, ANNI DI ANNUNCI E DIETROFRONT
Con l’Ue che pressa perché l’Italia riduca il debito, il governo è tornato a parlare di dismissioni e l’ultima moda sono le caserme. Nessuno ci è riuscito per anni, eppure la Pinotti vuole “mettere a punto entro un mese uno strumento anche normativo che consenta di dare velocità a queste cose”. Ma sul tema il governo ha fatto già diversi dietrofront in pochi mesi. Maggio 2011: il ministero della Difesa invita gestori di fondi real estate a partecipare a una gara per la creazione di uno o più fondi di sviluppo in cui sarebbero state apportate le caserme da dismettere. Il bando viene pubblicato a dicembre, ma già il 4 giugno 2012 la Difesa sospende la gara per 6 mesi per la”mancanza di un piano definito di valorizzazione delle caserme”. Sei mesi dopo, il 25 gennaio 2013, il ministero revoca il bando. A maggio il ministro Mauro spiega: “Le dimissioni si faranno quando miglioreranno le condizioni”. Improvvisamente, però, a novembre le condizioni sono migliorate: siamo “pronti ad attingere all’immenso patrimonio immobiliare per fare cassa, dismettendo palazzi e caserme”, annuncia Mauro il 18 novembre. Forse non è un caso che soli 3 giorni prima, il 15 novembre, era arrivato un duro richiamo della Commissione Ue, che bocciava la legge di Stabilità e bacchettava l’Italia.

ASTE DESERTE E SVALUTAZIONE
Ma quante caserme ha venduto lo Stato? Poche e tutte piccole. “Il primo passaggio di caserme avvenne nel 2007 – spiegano dall’Agenzia del Demanio – quando circa 400 beni da dismettere per un valore nominale di 2 miliardi passarono dalla Difesa al Demanio civile, incaricato di prepararle per la vendita, ovvero fare i cambi di destinazione”. Una ventina di questi beni (ma solo di piccolo taglio, le caserme delle grandi città non rientravano nel novero) sono arrivati sul mercato nel 2010, ma le aste non hanno dato grandi risultati: “Se alcune piccole strutture sono andate a privati per pochi milioni (ad esempio la Gnutti di Brescia per 9,1 milioni, la Minghetti di Bologna per 3,8 milioni, la Scotti di Bergamo per 2,5 milioni, la Flores a Bergamo per 1,1 milioni), le più grandi come la Sani di Bologna (del costo originario di 42 milioni) e la Piave di Albenga (40 milioni) dopo 3 aste sono rimaste invendute”. Fino a fine 2013, quando sono state acquistate con altri 32 immobili da Cassa Depositi e Prestiti, ovvero dallo Stato con i soldi dei correntisti. E sono di fatto rimaste in pancia allo Stato. I prezzi? Crollati: la Piave è venuta via per 28 milioni; per la Sani, la Masini e la Mazzoni di Bologna ne sono bastati in tutto 50. Un’operazione di rientro dal deficit da 490 milioni, conclusa in extremis il 31 dicembre 2013 per evitare di sforare il tetto del 3%. Un’operazione di puro maquillage finanziario che in un sol colpo ha risollevato le sorti delle dismissioni operate dal Demanio, crollate dai 137 milioni del 2009 agli 11,9 del 2012. Altro che miliardi: nonostante tutti gli annunci, negli ultimi 5 anni il Demanio ha dismesso beni per soli 660 milioni.

BNP PARIBAS REAL ESTATE: “LO STATO NON VUOLE VENDERE”
I grandi investitori ai proclami ormai non credono più: “Sono 20 anni che il mercato ascolta annunci più o meno ambiziosi – spiega al fattoquotidiano.it Cesare Ferrero, country manager di Bnp Paribas Real Estate – e poi fa poco o nulla. Per mia regola non compro mai da chi non vuole vendere, e in questi anni l’ho capito: lo Stato non vuole vendere”. Perché? “Innanzitutto prima di fare annunci al vento bisogna preparare gli immobili, ovvero predisporre tutti gli atti, i documenti e le autorizzazioni necessarie. Mettere cioè il compratore in condizione di mandare subito i muratori per iniziare i lavori. Perché dovrei comperare una caserma per poi non sapere quando posso entrarci, dato che per avere il cambio di destinazione d’uso servono anni? Una volta c’era la liquidità, oggi nessuno si assume il rischio di aspettare che la macchina amministrativa si muova”. Ma esiste un mercato per le caserme della Pinotti? “Il mercato c’è quando l’interlocutore vuole vendere davvero: lo Stato deve dirci, cioè, con precisione cosa vuole dismettere, quando e in quanto tempo riusciamo a prendere possesso degli immobili. Quindi in questo momento il mercato non c’è”. La fotografia l’aveva scattata il 18 marzo, due giorni dopo l’annuncio del ministro, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli: “Le caserme ci sono, è il mercato che non c’è”.

DUE DECENNI DI TENTATIVI
Il patrimonio immobiliare pubblico ammonta a 340 miliardi. Sono 20 anni che lo Stato dice di volerlo vendere. Il primo tentativo vero è contenuto nella legge 35/1992. La società veicolo è Immobiliare Italia, nata nel 1993. Ma le procedure sono complicate, Immobiliare Italia non diviene mai operativa e 5 anni dopo il progetto viene abbandonato. Nel 1996 ci prova il governo Prodi: la legge 662 nomina una commissione con il compito di classificare i beni da valorizzare. Ma la disciplina per la sottoscrizione dei fondi è troppo complessa e il processo si arena subito. La Commissione non riesce nemmeno a censire i beni perché i dati forniti dalla Sogei, la società informatica del ministero delle Finanze, sono incompleti. “Il panorama è quello di un’amministrazione che spesso ignora il valore di ciò che amministra”, scrive la Corte dei Conti nel 1998. Nel 2002 nasce Patrimonio Spa, che dopo 9 anni di flop viene messa in liquidazione a luglio 2011.

E PROMESSE DI INCASSI MILIARDARI
Negli ultimi anni la gara è chi la spara più grossa. Nell’aprile 2010 Tremonti metteva in vendita i fari, da trasformare in resort di lusso. Idea rilanciata nell’agosto 2011. Due mesi dopo il prof torna alla carica e pensa a cessioni per “25-30 miliardi”. A luglio 2012 il ministro Grilli promette “vendite per 15-20 miliardi l’anno, pari all’1% del Pil”. Non manca all’appello nemmeno il governo Letta: nel luglio 2013 trapela un piano firmato da Renato Brunetta per tagliare il debito di 400 miliardi in 5 anni che prevede anche la vendita del patrimonio non strategico. L’ultima puntata della telenovela è del 13 ottobre 2013, giorno in cui diventa operativa Invimit, società di gestione che si occuperà della vendita delle caserme. “E anche le valorizzazioni sono difficili – spiega Maurizio Cannone, direttore della rivista specializzata Monitor Immobiliare – gli enti locali possono chiedere la cessione di beni in disuso, ma entro 3 anni devono dimostrare che il valore degli immobili è cresciuto altrimenti li perdono. E gli enti, che hanno sempre meno risorse, il rischio non se lo prendono”.

CARTOLARIZZAZIONI, NAUFRAGIO PAGATO DALLO STATO
L’unica dismissione in blocco effettivamente avviata fu un’operazione di finanza creativa firmata da Giulio Tremonti. Con la legge 410/2001 il governo Berlusconi fa sì che i 7 enti previdenziali pubblici (Enpals, Inail, Inpdap, Inpdai, Inps, Ipost e Ipsema) cedano 27.500 immobili ad una società veicolo privata, la Scip (Società di Cartolarizzazione di Immobili Pubblici), che anticipa al Tesoro un corrispettivo ricavato dall’emissione di obbligazioni (garantite dal valore degli stessi beni in vendita, quindi dallo Stato) e poi rimborsa gli investitori con il ricavato della vendita degli immobili. Viene offerto al mercato per 3,5 miliardi un patrimonio valutato 5,1 miliardi e vengono emessi bond per 2,3 miliardi. Le vendite vanno bene e consentono di rimborsare i titoli alle scadenze previste, l’ultima a dicembre 2003: nel 2008 il saldo di cassa è di 1,4 miliardi. Nel 2002, sull’onda dell’entusiasmo, viene costituita Scip 2, cui vengono affidati 62.800 immobili, per un totale di 7,8 miliardi: la società emette titoli per 6,6 miliardi. Le vendite però vanno male, a più riprese la società non riesce a rispettare le scadenze. A fine 2008 si registrano incassi pari al 66,5% del previsto. Finisce con un bagno di sangue e a pagare è lo Stato: nel 2009 il ministro dell’Economia certifica un buco da 1,7 miliardi che finirà a carico del bilancio pubblico, liquida la Scip 2 e gli enti si riprendono 28.000 appartamenti rimasti invenduti.

LE BACCHETTATE DELLA CORTE DEI CONTI: “RISCHIO SVENDITE”
Il 20 giugno 2012, 6 giorni dopo che il governo Monti era tornato a parlare di dismissioni e a 6 mesi dal decreto Salva Italia che ne ridisciplina le procedure, il presidente aggiunto Raffaele Squitieri riferisce in Parlamento e avverte: “Il rischio è quello di una svendita per un patrimonio che è inestimabile”. Ma negli anni i richiami sono stati continui. Nel 2006, in piena bufera Scip 2, nel documento “Analisi dei risultati delle cartolarizzazioni” la Corte dei Conti condanna la “scarsa trasparenza” del piano elencandone i motivi: “La ristrettezza dei tempi di organizzazione e di attuazione delle operazioni”; “la disorganicità e la scarsa flessibilità della normativa”; “la carenza di capacità gestionali delle pubbliche amministrazioni”; i limiti dei sistemi interni di controllo strategico e gestionale”, si legge a pagina 33. La sentenza su Scip 2 arriva nel 2008: “Un ambizioso progetto rimasto incompiuto – scrive la Corte nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato – che ha conseguito risultati più che modesti”. Ma che ha fatto la felicità delle banche: Abn Amro, Bnl, Jp Morgan e Citigroup per Scip 1 e Banca Imi, Deutsche Bank, Intesa e Lehman Brothers per Scip 2. I costi operativi? Oscillano dagli 850 milioni indicati dalla Corte agli 1,3 miliardi conteggiati dal “Coordinamento nazionale inquilini immobili di pregio”.

ASTE PUBBLICHE, DIECI ANNI DI CROLLO: “IL MERCATO E’ FERMO”
Al di là delle grandi dismissioni orchestrate dallo Stato centrale, quelle piccole fatte da Regioni, Province, Comuni ed enti pubblici continuano. Ma neanche queste vanno bene. Secondo i dati contenuti in un report pubblicato nel 2014 dal Consiglio Nazionale del Notariato, tra il 2003 e il 2012 le vendite all’asta di immobili messi sul mercato dai 7 enti pubblici sono letteralmente crollate: se nel 2003 il 60% delle aste pubbliche si era concluso con una vendita, nel 2012 la percentuale era scesa al 17%. “Un calo ancora peggiore del calo delle normali trattative – spiega Roberto Braccio, consigliere del Consiglio Nazionale del Notariato, responsabile del progetto Ran, una piattaforma web dedicata alle aste telematiche lanciata per sbloccare il settore delle aste giudiziarie – se nello stesso periodo gli atti di compravendita del settore residenziale nazionale sono diminuiti del 42%, le aggiudicazioni nelle aste degli enti sono precipitate del 72%”. Il motivo? “Il mercato è fermo, i capitali non ci sono le dismissioni in blocco non funzionano più”.