Il Paese dei delitti irrisolti

di Sergio Castelli

La fine di un incubo per Raniero Busco. Per anni è stato lui il principale indiziato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni ammazzata a pugnalate il 7 agosto del 1990 in via Poma. Ma nella tarda serata di ieri la Cassazione ha messo la parola fine confermando la sentenza di assoluzione di secondo grado. Secondo i giudici del Palazzaccio nel dibattimento del processo d’appello non vi è stata alcuna irregolarità. E così dopo quasi 24 anni il delitto resta ancora senza un colpevole e il killer probabilmente tranquillamente libero. Busco, ex fidanzato ella Cesaroni, è stato per anni sotto tiro per il delitto di via Poma. Non era in aula e non c’era nemmeno sua moglie, Roberta Milletarì: la sentenza l’hanno aspettata a casa con i figli. Tirando alla fine un lungo sospiro di sollievo. Ma non era iniziata proprio sotto i migliori auspici la giornata di Busco, con il procuratore generale Francesco Salzano che aveva chiesto alla Suprema Corte di annullare con rinvio la sentenza di secondo grado che ha scagionato Busco dall’omicidio della Cesaroni avvenuto in una Roma soffocata dall’afa della lunga estate del 1990. Non ci sarà quindi un altro processo per Busco. Il giallo su via Poma invece resta. Con l’allora 21 enne Simonetta, impiegata dell’Aiag, che fino resta senza giustizia. In primo grado, invece, Busco era stato condannato a 24 anni. Ma ora sul processo è calato il sipario.

La contestazione
Secondo il procuratore generale Salzano le prove nel corso del secondo grado di giudizio non sarebbero state elaborate correttamente e per questo aveva chiesto una nuova perizia. A cosa di preciso faceva riferimento? Nel mirino il segno sul seno sinistro della Cesaroni. Occorreva fare luce su quello secondo il procuratore e chiarire se si trattasse di un morso di Busco o solo di una semplice escoriazione. E per questo nell’udienza di ieri mattina in Cassazione ha chiesto di rimettere in discussione quello, da lui reputato, un elemento essenziale per far luce sul delitto di via Poma. Una lesione visibile nelle foto scattate nel corso dell’autopsia. Non è stata così. Su quelle foto nel corso degli anni che hanno portato alla sentenza definitiva, e non sono pochi, gli esperti hanno portato avanti una vera e propria battaglia. Quello che era stato definito un morso in primo grado è diventato una qualunque altra cosa in appello. E così il caso è chiuso. La sentenza d’appello era stata impugnata anche dalla Procura Generale di Roma.

Le reazioni
Ovviamente delusi dalla sentenza i familiari della Cesaroni: “C’erano forti incongruenze e adesso quello di via Poma resta un delitto senza colpevoli”, ha commentato a caldo l’avvocato di parte civile della famiglia, Federica Mondani, “Rimaniamo convinti che c’erano elementi importanti contro Busco”. Mentre a casa Busco, una villetta nella periferia sud della Capitale, una bottiglia di spumante è stata stappata per festeggiare l’assoluzione definitiva. “Mio marito e io siamo felicissimi”, ha commentato al telefono de Roberta Milletarì al telefono dell’avvocato Paolo Loria che insieme a Franco Coppi ha difeso Busco nel processo, “Ora questa vicenda per noi è sepolta. Per sempre” E Per giungere alla verità, secondo un vasto parterre di esperti di criminologia, occorrerebbe rivalutare altri indizi perché a carico di Busco non vi erano prove sufficienti tali da condannarlo. E allora il racconto torna indietro nel tempo a quell’agosto quando Simonetta venne uccisa negli uffici dell’Associazione Alberghi della gioventù a Roma. A quelle 29 coltellate e a quel corpo che fu ritrovato dalla sorella Paola e dal datore di lavoro di Simonetta.