Nel Pd la discussione sul riarmo e l’Ucraina non è mai stata soltanto geopolitica. È diventata un confronto identitario. Da un lato c’è la linea della segreteria: sostegno a Kiev, ma dentro un quadro politico leggibile, responsabile, non appaltato ai riflessi condizionati del riarmo. Dall’altro c’è l’offensiva dei riformisti, decisa a trasformare ogni sfumatura in un’accusa. Il risultato è che, alla vigilia della presentazione del dodicesimo decreto di aiuti militari – che Guido Crosetto porterà al Copasir il 2 dicembre – il Pd discute più di sé stesso che del provvedimento.
I riformisti all’attacco: la politica estera come test ideologico
La crepa si è allargata lunedì scorso, quando il Consiglio Supremo di Difesa ha riaffermato il «pieno sostegno dell’Italia all’Ucraina». La posizione del Quirinale è nota, coerente, istituzionalmente inattaccabile. Ma è stata la scia politica del giorno dopo a incendiare il partito. Lorenzo Guerini, in un’intervista al Corriere della Sera ora parla di riarmo europeo «ineludibile» e della necessità di «fare presto». Una pressione che non si limita al governo Meloni: è diretta, in modo trasparente, alla segreteria.
Il quadro politico esterno non è secondario. Sempre l’altro ieri, Francia e Ucraina hanno firmato un’intesa che prevede Rafale e sistemi Samp/T Ng. Un accordo pesante, che ha dato all’ala riformista l’occasione per rilanciare l’argomento secondo cui l’Italia rischierebbe “irrilevanza” se non accelera. Ma questo approccio trascura un dato: l’Italia non è la Francia, e il Pd non può permettersi di leggere la sicurezza europea esclusivamente attraverso la corsia militare, ignorando costi economici e ricadute sociali.
Il voto europeo che ha svelato la faglia interna
La divisione non nasce adesso. È emersa con nettezza il 28 novembre 2024, quando l’Europarlamento ha votato la risoluzione per chiedere agli Stati membri forniture di missili a lungo raggio. La delegazione dem si spaccò: Picierno, Tinagli, Gori, Gualmini favorevoli; Zingaretti, Strada, Tarquinio contrari o astenuti. Una riproposizione dello stesso schema si è vista nel voto del 9 luglio 2025 sui missili Taurus.
La destra agitò quel risultato come prova di “ambiguità”, ma in realtà fotografava uno scontro di priorità: chi voleva spingere sull’escalation operativa e chi riteneva necessario tenere insieme sicurezza e responsabilità politica. Be’, quella responsabilità è esattamente ciò che Schlein rivendica da mesi.
La segreteria non ha mai messo in discussione il sostegno all’Ucraina. Lo ha fatto nei voti – tutti favorevoli ai decreti di proroga del 2022, 2023 e 2024 – e nelle parole. Il Pd, nel gennaio 2024, ha ribadito che l’aiuto a Kiev è doveroso, ma che il governo non può pretendere un «mandato in bianco». È una posizione di equilibrio, non di rinuncia: riconosce l’aggressione russa, ma rifiuta l’idea che la politica estera sia una gara a chi pronuncia più velocemente la parola “armi”.
Il nodo politico: chi decide la postura del Pd
È su questo terreno che la tensione politica sale. Nel Pd convivono due modelli di lettura della realtà: uno che considera la complessità un dovere politico, l’altro che la ritiene un ostacolo. La corrente riformista – strutturata ufficialmente all’assemblea “Crescere” del 24 ottobre a Milano – tratta ogni cautela come una colpa, ogni analisi come un cedimento, ogni dubbio come una resa culturale. È una dinamica che finisce per allineare il Pd al racconto della destra, che accusa chiunque non corra verso il riarmo di essere “tiepido” o “confuso”.
Il voto del 2 dicembre sul decreto-armi farà emergere la linea definitiva. Non sul merito – lì i dem saranno compatti – ma sul metodo. Se il Pd accetta la cornice dei riformisti, la prudenza diventa sospetto. Se invece ribadisce la propria autonomia, allora la politica estera torna ad essere ciò che deve: una scelta ponderata, non un’adesione acritica allo storytelling dell’emergenza.
Il punto è tutto qui. Schlein sostiene l’Ucraina, ma non rinuncia a leggere la guerra dentro l’Europa che c’è, non dentro quella che alcuni vorrebbero raccontare. Ed è in questa distanza – non sugli aiuti, ma sul come si decide – che oggi si gioca la vera frattura del Pd.