Il popolo del vizio. Il 45% degli italiani non può fare a meno di scommettere

di Angelo Perfetti

Siamo un popolo di santi, poeti, navigatori e giocatori d’azzardo. Dagli ultimi dati in possesso del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio, che si occupa di tutte le dipendenze dunque anche delle ludopatie, risulta che il 45% della popolazione italiana gioca regolarmente. Dai gratta e vinci alle lotterie, in moltissimi tentano la fortuna. Pochi vincono, molti perdono. Qualcuno anche la salute, e intere famiglie vengono rovinate. La fotografia è impietosa, eppure risulta ancora sfocata. “Solo da poco tempo – spiega il capo del Dipartimento, prof. Giovanni Serpelloni, neuroscienziato – si è capito che la situazione va monitorata con metodo scientifico, che la propensione al gioco d’azzardo in alcuni casi, purtroppo sempre più frequenti, può sfociare in dipendenza”.

Zone d’ombra
Dietro al mondo del gioco c’è una zona d’ombra, tentacolare. D’altra parte il business è appetibile: solo lo Stato guadagna 8 miliardi annui grazie agli incassi relativi ai giochi d’azzardo legali. Poi c’è la tentazione della criminalità a utilizzare il settore come lavaggio per denaro sporco. Ma per la maggior parte dei cittadini il gioco, che di per sé evoca scenari di divertimento e spensieratezza, viene notato solo nel caso di vincite. Invece per uno che vince ce ne sono milioni che pagano le conseguenze di chi precipita nel cosiddetto “gambling” (cioè la dipendenza patologica al pari di un drogato). Non si ha bene la percezione di quanto costi allo Stato, e dunque alla collettività che lo finanzia con le tasse, ma parliamo di cifre ben più grandi degli stessi ricavi.

Il costo sociale
“Il costo annuo per la cura di un paziente affetto da una dipendenza – spiega ancora Giovanni Serpelloni, che è anche consulente del neonato Coordinamento tecnico scientifico dell’Osservatorio nazionale sulle dipendenze – tra intervento psicologico, educativo e farmacologico si aggira tra i 4000 e i 6000 euro all’anno. Che schizza a 20.000 euro se necessita di ingresso in comunità di recupero. Costi altissimi, a carico del Servizio sanitario nazionale. Ecco perché ci battiamo molto per la prevenzione, ecco perché cerchiamo l’approccio scientifico alla materia: è l’unica strada per intervenire efficacemente in un settore devastante proprio perché mascherato da ‘gioco’”. Per ora gli introiti superano gli eventuali costi sociali e sanitari da sostenere, ma basta moltiplicare il costo per le proiezioni sul numero medio dei giocatori affetti da ludopatia per arrivare a una spesa sanitaria che va ben oltre il guadagno dello Stato. Il punto è che quei soldi sono cash e raggruppati mentre il costo sanitario ha come terminale i conti pubblici e si spalma più a lungo nel tempo.

Come la vedono le imprese
“Troppo spesso i numeri che vengono forniti sono imprecisi – chiarisce Massimo Passamonti, presidente di Sistemi Giochi Italia, la Confindustria del gioco – e si basano su possibili rischi rispetto all’intera popolazione che si avvicina al gioco, anche a chi spende due euro in un intero anno. Per un’analisi seria bisognerebbe riferirsi solo a chi gioca con regolarità, e i numeri sono estremanente più bassi. Anche in termini di costi. Ciò non vuol dire che il problema non vada affrontato, e siamo da sempre disponibili a farlo. Ma senza demonizzazioni”.

Famiglie rovinate
Ma come può un gioco d’azzardo di pochi euro provocare tanti danni? Anche qui basta andare oltre la superficie per capire quanto disagio innesca una ludopatia grave. L’attività compulsiva verso l’acquisto di gratta e vinci piuttosto che verso il poker on line, “costringe” il malato a spendere tutto ciò che ha nella speranza/certezza di riconquistare i soldi investiti. Finiti i propri si passa a quelli dei familiari, si mette il lavoro in secondo piano fino a perderlo. Con un aggravio di costi per la collettività che si ritrova improvvisamente con nuovi disoccupati oltre quelli già provocati dalla crisi economica. Non solo, ma per reperire fondi, sempre con la speranza del riscatto, si finisce nelle mani degli usurai che con il vizio del gioco lucrano di riflesso.

I limiti della lotta
La mancanza di organizzazione generale, di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nella prevenzione (Ministero della Salute, Dipartimento politiche antidroga, Sert, Asl, Sistema Gioco Italia, ecc.) spesso vanifica quell’azione di conoscenza del problema che pure muove le diverse istituzioni. Un esempio per tutti: il decreto Balducci prevedeva che nei luoghi di gioco fossero affisse delle tabelle con i rischi specifici per la salute rispetto alla ludopatia. Peccato che nessuno le avesse preparate, e dunque si era innescato un “fai da te” improduttivo quanto pericoloso. Ci ha pensato poi il Dipartimento a uniformare i testi, ma è stata la cartina di tornasole di quanto indietro sia ancora la metodologia per affrontare un problema che, vista la congiuntura economica, rischia di assumere i contorni di una vera e propria piaga.

La schizofrenia pubblica
Se da un lato si analizzano con sempre maggiore precisione i costi sociali del fenomeno della ludopatia, dall’altra sono sempre più frequenti gli spot televisivi e radiofonici che invitano al gioco. Una situazione francamente incomprensibile, e a nulla vale la “foglia di fico” dell’invito a giocare “responsabilmente”: sarebbe come dare la spinta a qualcuno sull’orlo di un precipizio e invitarlo a cadere lentamente. I messaggi dovrebbero essere mirati verso i casi veramente a rischio – che non sono la maggioranza – risultando così più efficaci e meno soggetti ad interpretazioni errate quanto alla diffusione del problema.

 

SONO TROPPE LE OCCASIONI PER ROVINARSI

di Valeria Di Corrado

Il circolo vizioso del gioco ha coinvolto anche le istituzioni. Gli enti locali hanno ormai chiaro che il settore va disciplinato. Per colmare le lacune lasciate dalla normativa nazionale, le amministrazioni comunali gradualmente stanno elaborando propri regolamenti interni. Delibere che, puntualmente, vengono bocciate dai tribunali amministrativi regionali (con l’eccezione delle leggi approvate dalle province autonome di Trento e Bolzano). Questo perché la materia è di competenza dello Stato. E lo Stato che fa? Nel momento in cui, con il decreto legge Balduzzi, c’è stata la possibilità di limitare l’espansione di sale scommesse, slot machines e videolottery, ha partorito un topolino.

La finta rivoluzione di Balduzzi
L’articolo 7 del decreto legge 158 del 13 settembre 2012 parla della necessità di attuare “una progressiva ricollocazione” degli apparecchi ludici che risultano “territorialmente prossimi a istituti scolastici primari e secondari, strutture sanitarie e ospedaliere, luoghi di culto”. Senza però stabilire quale sono le distanze minime da imporre. In sostanza, tutto fumo e niente arrosto. Come se non bastasse, nel testo si precisa che le limitazioni verranno applicate solo alle nuove concessioni (quelle bandite, cioè, dopo l’entrata in vigore della legge). Tradotto: fra 5 o 7 anni. Le altre novità introdotte sono solo “d’immagine”. Sono stati vietati i messaggi pubblicitari di giochi con vincite in denaro nel corso di trasmissioni televisive, radiofoniche, cinematografiche o teatrali. Ed è entrato in vigore l’obbligo di trovare una “formula di avvertimento sul rischio di dipendenza dal gioco nonché sulle relative probabilità di vincita” nelle schedine e nei tagliandi di tali giochi. Quello che in sostanza si fa con le sigarette. Eppure la gente continua a fumare. E pensare che la bozza iniziale del decreto Balduzzi aveva al suo interno delle restrizioni reali e concrete. Si introduceva una distanza minima di 500 metri delle sale da gioco dai centri di aggregazioni delle persone sensibili alla ludopatia. Ma gli interessi delle società di gioco hanno prevalso sull’interesse a tutelare la salute. Il testo conclusivo è stato annacquato e in sede di conversione in legge del gli emendamenti proposti per reinserire tali restrizioni sono rimati lettera morta. I maligni sono convinti che alla fine sia convenuto anche allo Stato chiudere un occhio, considerato l’indotto che il settore frutta all’Erario 8,5 miliardi l’anno e in tempi di crisi non ci si può permettere di andare tanto per il sottile.

C’è chi corre ai ripari
Circa un centinaio di comuni italiani hanno assunto negli ultimi anni delibere o regolamenti per limitare gli orari delle sale da gioco e l’installazione in prossimità di scuole, ospedali e chiese di slot machine e punti di scommesse. Ogni qualvolta però gli esercenti hanno impugnato i provvedimenti davanti ai Tar locali, i magistrati non hanno potuto fare a meno di dare torto alle amministrazioni comunali, ritenendo illegittimi gli atti adottati. Questo perché manca una legge regionale in materia e quella nazionale (nonostante il decreto Balduzzi) non prevede restrizioni così vincolanti.
L’ultima in ordine temporale è la sentenza del Tribunale regionale del Veneto, emessa il 16 aprile scorso, con la quale viene bocciato il regolamento elaborato dal comune di Venezia. La motivazione? La materia della ludopatia va trattata in modo unitario in tutta Italia. Una voce parzialmente fuori dal coro rispetto a questa giurisprudenza “granitica” è quella del Tar del Piemonte, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. Secondo i giudici amministrativi torinesi va integrato l’articolo 50 del Testo unico degli enti locali, lì dove si conferisce al sindaco poteri di tutelare la salute dei cittadini “solo in caso di emergenza sanitaria”. Se la Corte di Costituzionale dovesse accogliere questa interpretazione riformista, i comuni avrebbero finalmente campo libero per autoregolamentarsi.

Il caso di Trento e Bolzano
Visto che lo Stato è latitante, le Province autonome di Trento e Bolzano hanno preferito trovare da sole la propria strada. Hanno elaborato due leggi che vietano l’installazione di slot machines in fasce sensibili, quelle frequentate cioè da persone solitamente vittime del gioco compulsivo. Nello specifico, l’Alto Adige ha ordinato nel 2012 la rimozione di tutti gli apparecchi che distano meno di 300 metri da scuole, chiese e ospedali; il Trentino invece ha dato nel 2011 ai singoli comuni la possibilità di decidere come distanziare gli apparecchi. L’iniziativa legislativa non è andata giù a Lottomatica Video Lot Rete, società che gestisce la raccolta degli apparecchi. Il colosso del gioco e ha impugnato davanti al Trga del Trentino (il corrispettivo del Tar per le regioni a statuto speciale) tutte le delibere emanate dai comuni trentini. Si è appellato al fatto che la “diffusione del gioco controllato” è rimessa allo Stato e deve essere trattata in modo unitario in tutto il territorio nazionale. Connessi alla materia ci sono infatti principi come la libera iniziativa, la concorrenza, la tutela della salute e la sicurezza, demandati appunto allo Stato. Fatto sta che il Tribunale amministrativo di Trento ha respinto il ricorso di Lottomatica. Un precedente che potrebbe estendersi ad altre regioni autonome, come la Sicilia o la Valle d’Aosta, e per questo preoccupa gli interessi della società. Il rischio ventilato è che si creino dei fenomeni di “migrazione da gioco” da una regione all’altra, acuendo i casi di ludopatia in determinate zone. La risposta definitiva può venire solo dallo Stato. Il prossimo governo dovrà dimostrare se sul gioco vuole fare sul serio.