Il 3 novembre sono entrate in vigore le Linee guida dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che rendono operativa la “premialità” negli appalti pubblici per tecnologie digitali con rilevanza strategica. La norma prevede che nelle gare le aziende che utilizzano sistemi di difesa informatica prodotti in Italia, nell’Unione Europea, nei Paesi Nato oppure in un gruppo ristretto di Stati considerati “affidabili” ottengano un vantaggio diretto nella valutazione: otto punti in più rispetto ai concorrenti. Nell’elenco dei Paesi partner, accanto a Giappone, Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Svizzera, figura anche Israele, unico Stato extra-Nato ed extra-Ue con una filiera industriale dominante nel settore della sorveglianza e della sicurezza digitale.
Cybersicurezza, il meccanismo della premialità e la valutazione della provenienza
La premialità riguarda firewall, piattaforme di monitoraggio delle reti, sistemi di rilevamento intrusioni, servizi cloud con funzioni di sicurezza, apparati di controllo e filtraggio del traffico dati. La provenienza non è dichiarativa: le aziende devono presentare la Bom o Sbom, l’elenco dettagliato dei componenti hardware e software, con indicazione del Paese in cui sono stati sviluppati, fabbricati o erogati. Il punteggio non è modulabile. È un criterio binario: se la tecnologia è conforme, l’impresa riceve gli otto punti; se non lo è, il punteggio non viene assegnato.
L’impatto è particolarmente significativo per le reti 4G e 5G: per le amministrazioni del comparto sicurezza nazionale l’applicazione della premialità è obbligatoria. In questi casi la scelta della tecnologia non è soltanto una valutazione economica o tecnica. Diventa una questione di allineamento geopolitico. Le Linee guida si limitano a richiamare requisiti di sicurezza della supply chain, ma l’effetto è quello di orientare la spesa pubblica in direzione di un numero ristretto di fornitori già integrati negli accordi di intelligence e difesa.
Israele come fornitore strategico nel perimetro digitale
L’inclusione di Israele nell’Allegato 3 non è un dettaglio tecnico. È il riconoscimento di un rapporto strutturale che negli ultimi anni ha già spostato competenze e risorse verso aziende israeliane attive nei settori del monitoraggio di rete, dell’analisi comportamentale, degli apparati di intercettazione e dei software di controllo remoto. L’ecosistema cyber-militare israeliano si colloca da tempo sul confine tra difesa, sicurezza interna e mercato privato, con una filiera alimentata dall’Unità 8200, incubatore di startup e spin-off in grado di trasformare tecnologie di intelligence in strumenti commerciali.
Con la premialità il vantaggio competitivo diventa istituzionalizzato. Un’impresa italiana che utilizzi tecnologie israeliane (al pari degli altri Paesi indicati) nei propri prodotti parte avvantaggiata nelle gare rispetto a chi si affida a fornitori esterni al perimetro. Il risultato è un incentivo diretto: per rimanere competitivi, gli operatori nazionali sono spinti a integrare piattaforme e componenti provenienti da Tel Aviv. In un settore dove la provenienza della tecnologia coincide con la provenienza delle logiche di sorveglianza, questo significa importare anche modelli di controllo.
Il governo rivendica la scelta come misura di protezione strategica. L’argomento è che la frammentazione delle forniture e la presenza di attori considerati ostili (tra cui Cina e India) espongono la Pubblica Amministrazione a rischi di compromissione. Ma dietro la retorica della sicurezza nazionale si consolida un modello in cui la definizione di “Paese affidabile” coincide con una precisa postura diplomatico-militare. La cybersicurezza viene trattata come un’estensione della politica estera e non come un ambito tecnico.
La conseguenza è che una quota crescente delle infrastrutture digitali pubbliche sarà costruita su tecnologie prodotte in un contesto industriale che risponde a logiche di sicurezza e controllo sviluppate in un quadro di conflitto permanente. È un orientamento che ridisegna la filiera italiana della cybersicurezza, spinge le imprese a dipendere da partner stranieri per essere competitive e limita lo spazio per una reale autonomia tecnologica. Non è una scelta neutrale. È una scelta di campo. E produce effetti difficili da invertire.