L’8 e 9 giugno il quorum è rimasto lontano, fermandosi al 30,6%. Ma a franare davvero è stata la narrazione delle opposizioni. Pd, M5S e Avs avevano provato a trasformare cinque quesiti tecnici in un voto politico, quasi una mozione di sfiducia popolare contro il governo Meloni. Il risultato ha rovesciato l’intento: Giorgia Meloni si è ritrovata con una conferma implicita, mentre chi puntava a scalzarla è finito risucchiato in una resa dei conti interna.
Giuseppe Conte ha tentato di mettere una pezza: “Sono andati a votare 15 milioni di cittadini, come nel 2022 quando Meloni fu eletta”. Ma il confronto non regge. Il referendum non ha spostato nulla: né leggi, né rapporti di forza. E chi ha firmato quei quesiti oggi appare più isolato di ieri.
Il Pd alla frutta (amara)
Nel Partito democratico la crisi si è presentata puntuale, con nome e cognome. Pina Picierno ha parlato di “una sconfitta profonda, evitabile” e di “un regalo enorme a Meloni”. L’eurodeputata ha firmato la sentenza. Elisabetta Gualmini ha aggiunto che si è trattato di “un boomerang”. Lia Quartapelle ha messo in discussione l’idea stessa di costruire battaglie guardando al passato.
Elly Schlein, schiacciata tra l’insuccesso e la minoranza interna, ha provato a rimettere insieme i pezzi: “Quei voti sono il cuore dell’alternativa”. Ma non basta. La segretaria è sotto assedio, e non da parte della destra. Il dissenso nel partito cresce come una frattura che non si rimargina. Anche il centrista Bonaccini ha avvertito che “quando due terzi del Paese non partecipano, serve riflessione”. E la riflessione, tradotta dal renzismo in sonno, significa: si cambia linea o si cambia segreteria.
Il campo largo? Un esperimento per ora fallito
Nella foto di gruppo post-referendaria c’erano ancora loro: Conte, Schlein, Bonelli e Fratoianni. Uniti sul palco, ma a pochi passi dalla dissolvenza. L’unità esibita è stata subito smentita dai fatti.
Il leader M5S ha scelto toni cauti, ma la distanza è plastica: “Difenderemo in Parlamento i temi del referendum”, ha detto. E intanto rilancia lo ius scholae come proposta autonoma. Tradotto: lavoriamo insieme, ma sulle mie condizioni. Avs, dal canto suo, insiste sulla narrazione del “messaggio forte” dei 13 milioni di Sì, ma è chiaro che quel consenso non ha prodotto nulla. Né peso, né egemonia.
Fuori dal coro, Calenda e Renzi hanno infierito senza nemmeno nascondere il compiacimento. Il primo ha accusato la sinistra di “farsi trascinare da Landini e Fratoianni” e di essere “incapace di parlare al ceto medio”. Il secondo ha liquidato i quesiti come “ideologici” e ha precisato: “Per battere Meloni bisogna parlare del 2025, non del 2015”.
Il vero risultato: un’opposizione più fragile
Il campo largo non è morto. Per ora è evaporato. Senza nemmeno passare da un funerale. Gli unici a crederci ancora sono quelli che non hanno alternative. Tutti gli altri – Renzi, Calenda, una parte del Pd – aspettano l’autopsia per spartirsi le spoglie.
Il fallimento referendario ha lasciato il governo Meloni intatto, anzi, rafforzato. Fazzolari lo ha detto senza giri di parole: “Il tentativo di usare il referendum contro l’esecutivo si è ritorto contro i promotori”. E La Russa ha sigillato: “Il campo largo è morto”.
Nel frattempo, tra le opposizioni, ognuno si attrezza per conto proprio. Il M5S prova a ergersi a perno solitario del dissenso sociale. Il Pd si lacera. Avs si trincera nei valori. E il Terzo Polo prova ad apparire l’unico in grado di parlare di futuro. Nel vuoto lasciato dalla sinistra, il governo non deve nemmeno sforzarsi di parlare. Può restare in silenzio. A parlare, questa volta, è la sconfitta altrui.