Il taglio dei parlamentari fa paura. La casta teme l’ultima Caporetto. A settembre il voto finale alla riforma costituzionale. Partiti nel panico: saranno 345 le poltrone in meno

Ad annunciarlo è stato Luigi Di Maio in persona: “La proposta di legge per il taglio dei parlamentari è stata calendarizzata per il 9 settembre. Mancano 6 settimane a una svolta epocale. La prossima volta che andremo a votare, voteremo per un Parlamento con 345 poltrone in meno. Ecco perché sentite tanto rumore in questi giorni”. La ragione è presto detta: “Gli ultras della disfatta aumentano di ora in ora, tremano all’idea di non avere più un posto comodo e sicuro, pagato con i soldi dei cittadini”. Insomma, ci sarebbe chi farebbe di tutto per far cadere il Governo prima dell’ok definitivo alla riforma costituzionale che permetterebbe di passare da 945 parlamentari tra Camera e Senato a 600 (400 deputati e 200 senatori) e che consentirebbe di risparmiare qualcosa come mezzo miliardo di euro.

LA CASTA RESISTE. Sono i numeri, d’altronde, a raccontare uno scenario non molto conveniente e che spiega perché, da destra a sinistra, nell’opposizione e nella maggioranza, più di qualcuno continua a ventilare lo spauracchio delle elezioni anticipate. Lo stesso Matteo Salvini, che un giorno sì e l’altro pure minaccia di far cadere il Governo, sa bene che qualora si superasse il 9 settembre, sarebbe molto difficile andare al voto perché l’esito di un’elezione con meno posti in Parlamento sarebbe decisamente incerta. E la Lega non potrebbe garantire a tutti i suoi onorevoli di essere rieletti. Specie al Sud dove al di là di alcune Regioni (Sardegna e Abruzzo) il Carroccio evidentemente non ha sfondato. Il che potrebbe essere un problema specie per la fetta dei seggi assegnati con il sistema maggioritario dove vince chi prende più voti. Ergo: “Se la riforma dovesse passare – commenta più di qualcuno in Transatlantico – non tutti anche nel Carroccio appoggerebbero il voto anticipato”.

Situazione ancora più disperata negli altri partiti. Prendiamo il Partito democratico di Nicola Zingaretti. Alle elezioni del 4 marzo il Pd raccolse il 18% dei voti; oggi è dato al 21% ma con un terzo dei seggi in meno a disposizione. Non solo: i renziani eletti – la stragrande maggioranza oggi degli onorevoli dem – sanno bene che il voto anticipato potrebbe essere un’occasione ghiotta per la nuova segreteria per fare un repulisti generale interno e abbattere proprio la fronda renziana. Questa la ragione per cui, dopo la riforma costituzionale, per i renziani è più che mai certa l’impossibilità di rientrare in Parlamento. “Ecco perché – si ragiona a mezza bocca tra i parlamentari – anche tra i democratici c’è qualcuno che, al di là delle dichiarazioni di circostanza non è assolutamente interessato ad andare al voto”.

Stesso discorso anche in Forza Italia. Anzi, qui la situazione è decisamente più critica. Dopo la decisione di Silvio Berlusconi di cacciare Giovanni Toti e la fuoriuscita di voti degli ultimi mesi, il partito ai minimi termini non è nelle condizioni di affrontare un’elezione politica, meno che mai se ci sono 345 seggi in meno in palio. E neanche Fratelli d’Italia può dirsi immune da questo ragionamento: se infatti i sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni al 7,3% (dal 4,3 del 4 marzo 2018), è anche vero che con un terzo dei seggi in meno, continuerebbe a viaggiare sul numero dei parlamentari oggi a disposizione. La risultante di una tale situazione di stallo, insomma, è una serie di partiti che, pur di conservare la poltrona, oggi insistono sul voto anticipato. Sperando che non si arrivi al 9 settembre. Dopodiché si troverà un’alibi per tirare avanti il più possibile. E non per l’interesse dei cittadini, ma per salvare la poltrona.