L’ingovernabile timone del potere. C’è il mare della realtà all’origine della politica. Ronchi e Stiegler sulle rotte dei classici greci

Nel clima (finalmente) post-festivaliero, il vecchio motivetto di Orietta Berti “Fin che la barca va” potrebbe assumere una particolare pregnanza filosofica nel lavoro co-firmato da due grandi pensatori, Rocco Ronchi e Bernard Stiegler, dal titolo L’ingovernabile (Il Melangolo, pagg. 75, euro 7). E’ Ronchi a spiegarci che l’assillante domanda della metafisica classica “che cosa è l’essere?”, viene risolta da Aristotele e da tutta un’altra corrente che passa per Platone fino a Deleuze e Guattari, secondo due diversi opposti approcci. Se per entrambe le teorie l’essere si identifica col potere, per il primo, quest’ultimo è un disporre di qualcosa come strumento razionale di sovranità sulla realtà, e inaugura una “scienza regale” che rende l’uomo demiurgo e manipolatore della natura oltre ogni individualità e irregolarità; per i secondi, esso è un cozzare con qualcosa che invece è sostanzialmente “indisponibile”, “ingovernabile” appunto, cioè impossibile da recludere in un nomos, su cui non è nemmeno lontanamente ipotizzabile legiferare una volta per tutte e che non corrisponde a nessuna trascendenza.

E’ questo che spinge Platone a dire che viviamo – e ci vincoliamo reciprocamente – kata dynamin, cioè per quanto possibile, nel miglior grado possibile, assecondando ciò che già esiste e lottando per dare una forma sempre nuova a ciò che ci circonda. Ne escono fuori splendidamente due paradigmi della tecnica: da un lato, una che domina e geometrizza, dall’altra, una di tipo tattico, sussidiaria della debolezza umana. E anche della politica: quella Grande che informa e si impone perché ritiene di possedere una verità categoriale inattaccabile, e quella Piccola che è nomadica, diffusa, studia rotte, scansa i naufragi, cerca porti, si appoggia ai flussi, si fa complice degli accadimenti, prepara le ciurme al peggio.

Governare, non a caso, ricorda Stiegler nel secondo saggio, deriva da gouvernail che vuol dire timone, e la stessa cibernetica di cui ci riempiamo la bocca quando vogliamo rappresentarci il progresso all’ombra di microchip e algoritmi, deriva dal greco kybernein che vuol dire proprio dirigere. Ecco allora il grave senso etico e democratico della contemporaneità. Vogliamo signoreggiare sul reale accelerando e intensificando quei processi che il filosofo francese chiama di “disrupzione”, cioè di pervasività e distruzione, o non piuttosto lavorare all’interno di un mondo che si è altamente affidato a protesi e macchine che possiamo però reindirizzare verso usi non letali, non disumanizzanti e non automatici? Navigare è necessario, vivere non lo è, dicevano i latini. Il saggio uomo-marinaio-Principe conosce Fortuna e fortunali prima del suo orgoglio.