La Sveglia

Israele distrugge, Abu Toha ricostruisce

Mosab Abu Toha ha vinto il Pulitzer mentre in troppi ancora si chiedono se le parole possano qualcosa contro la guerra. I suoi saggi pubblicati sul New Yorker non sono solo resistenza culturale: sono cronaca incisa nella carne, sono memoria che non chiede il permesso di esistere. Abu Toha scrive da poeta e sopravvissuto. Scrive per chi non può più parlare. Scrive con l’urgenza di chi ha perso tutto tranne la voce.

“La Gaza che ci lasciamo alle spalle” è un titolo che sembra una resa, ma contiene invece un intero atlante di ciò che si vuole far sparire: un forno d’argilla, il costume di Spider-Man del figlio, le partite di calcio tra amici, le melanzane coltivate ai bordi dei campi. È la geografia sentimentale della distruzione. Perché ogni casa bombardata, racconta, è “una sorta di album, pieno non di foto ma di persone reali, i morti pressati tra le sue pagine”.

Ha rischiato la deportazione dagli Stati Uniti, dove vive in esilio con la sua famiglia. Ha cancellato incontri pubblici per paura. Ha detto che è devastante essere al sicuro nel Paese che finanzia il genocidio della sua gente. Eppure continua a scrivere. Continua a raccontare la fatica di coltivare verdure in mezzo ai droni, la vergogna di chiedere a un fratello affamato di cercare un album fotografico sotto le macerie. La speranza che un aquilone visto da un bambino non sia solo un aquilone.

Abu Toha ha raccolto l’eredità di Refaat Alareer, ucciso da un raid nel dicembre 2023. A lui risponde con la stessa formula: “Let it bring hope. Let it be a tale”. Perché se devono morire, allora qualcuno deve raccontare. È questo, oggi, il compito del giornalismo. Il resto è contabilità del silenzio.