L’Unione europea si ritrova ancora spaccata sulla questione dei visti turistici ai cittadini russi. Da un lato Polonia, Stati baltici e Finlandia invocano un divieto pressoché totale per motivi di sicurezza; dall’altro Italia, Francia e Spagna difendono l’apertura controllata, appellandosi all’impatto economico del turismo e alla necessità di distinguere la società civile russa dal Cremlino. In questa contraddizione, l’Italia si conferma il Paese più permissivo: nel 2024 ha concesso 152.254 visti Schengen a cittadini russi, più della Francia (123.890) e della Spagna (111.187), con un tasso di approvazione superiore al 94%.
La frattura europea
La sospensione dell’accordo di facilitazione sui visti, decisa dal Consiglio Ue il 9 settembre 2022, ha reso la procedura più onerosa e lunga per i cittadini russi. Tuttavia, le conseguenze non sono state uniformi. I Paesi dell’Est hanno stretto le maglie fino a chiudere le frontiere, come nel caso della Finlandia che dal 2022 non rilascia più visti turistici, mentre la Polonia nel 2024 ha respinto il 65% delle richieste.
Al contrario, gli Stati del Sud e dell’Ovest hanno mantenuto canali preferenziali. Roma guida questo fronte, sostenendo formalmente le sanzioni contro Mosca ma rifiutando un divieto totale. La posizione ufficiale del governo è quella di applicare controlli più rigorosi senza chiudere del tutto la porta. Una linea che si traduce in numeri concreti: nel 2024 quasi tre quarti dei visti italiani concessi a russi erano a ingressi multipli, agevolando viaggi ripetuti nello spazio Schengen.
Contraddizione italiana
La contraddizione italiana emerge con chiarezza. Da un lato, il nostro governo dichiara di sostenere la coerenza delle sanzioni e denuncia l’aggressione russa; dall’altro mantiene l’Italia come principale porta d’ingresso per i viaggiatori russi in Europa. L’indotto economico spiega la scelta: prima della guerra il turismo russo valeva fino a 2 miliardi di euro l’anno, con una spesa pro capite giornaliera di 145 euro e una forte incidenza sul settore del lusso, dalle boutique di Milano alle località balneari come Forte dei Marmi e la Costa Smeralda.
Questa politica ha però effetti collaterali. I Paesi dell’Est, che vedono nella Russia una minaccia diretta, denunciano il rischio che i flussi turistici vengano sfruttati per attività di intelligence o spionaggio. Il ministro degli Esteri ceco Jan Lipavský ha ricordato che i servizi russi hanno storicamente usato i viaggiatori per mappare infrastrutture critiche. La conseguenza è una crisi di fiducia interna: i divieti unilaterali introdotti da Polonia e Baltici equivalgono a dichiarare che non si fidano dei controlli italiani e francesi, minando il principio stesso di Schengen. Il risultato è che, mentre Varsavia e Tallinn blindano le frontiere, Roma diventa il corridoio privilegiato per i russi che vogliono entrare in Europa.
Il compromesso danese
La presidenza danese del Consiglio Ue, in carica fino a dicembre 2025, sta lavorando a un compromesso. Sul tavolo ci sono quote per Paese, limitazioni ai visti multipli e criteri più severi per verificare la finalità del viaggio e le capacità economiche dei richiedenti. Rimane però improbabile un divieto assoluto: la Commissione europea ha chiarito che il diritto Ue non permette di introdurre un bando generalizzato basato sulla sola nazionalità.
In questo quadro, l’Italia continua a tenere una posizione ambivalente: sostiene le misure di Bruxelles ma resta il Paese che più di tutti garantisce l’accesso ai turisti russi. Una scelta che mette in evidenza l’incoerenza della linea del nostro esecutivo, divisa tra la retorica della fermezza e la difesa dei flussi economici che i rubli portano nelle casse del settore turistico nazionale. Un gioco a doppio binario che logora la credibilità internazionale di Roma e rivela, dietro la propaganda della fermezza, il peso di un calcolo economico che vale più della coerenza politica.