Nel 1992, Shimon Peres dichiarava alla televisione francese che l’Iran avrebbe avuto la bomba atomica «entro il 1999». Benjamin Netanyahu, appena un anno dopo, rincarava la dose: «Teheran svilupperà la sua prima bomba nucleare entro il 1999». Era l’inizio di una narrazione destinata a diventare ciclica. Ogni governo israeliano, da allora, ha continuato ad annunciare che la Repubblica Islamica era a un passo dall’atomica. E ogni volta quella soglia non è mai stata raggiunta.
La svolta arriva nei primi anni ’90, dopo la Guerra del Golfo e il crollo dell’URSS. Israele, privo di un nemico convenzionale immediato, riorienta la propria dottrina di sicurezza e individua nell’Iran l’avversario strategico da opporre al proprio isolamento regionale. La minaccia atomica, più che un dato di intelligence, diventa uno strumento di diplomazia preventiva. Già nel 1992, oltre a Peres, anche Netanyahu parla in Parlamento di «tre-cinque anni» come orizzonte per la prima bomba iraniana. Scadenze che si sposteranno, costantemente, di anno in anno.
Uno schema ripetuto
Nel 1996 Peres aggiorna: l’Iran avrà l’arma nel 2000. Nel 1999, un alto ufficiale militare stima la scadenza al 2004. Nel 2001, il ministro della Difesa fissa il limite al 2005. Nel 2008 il generale Isaac Ben-Israel afferma che «gli iraniani sono a uno o due anni dalla bomba»; nel 2009 Yossi Baidatz parla di materiale fissile sufficiente «entro l’anno». Anche il discorso all’ONU di Netanyahu nel 2012 – con la celebre “bomba disegnata” – inserisce una nuova deadline: «meno di un anno al punto di non ritorno». Ma pochi mesi dopo, un rapporto del Mossad trapelato alla stampa lo smentisce: l’Iran non sta compiendo le attività necessarie alla produzione di un ordigno.
Intanto, gli obiettivi israeliani si consolidano: ottenere sanzioni, influenzare le decisioni strategiche statunitensi, rallentare i negoziati internazionali e legittimare operazioni militari. Il 2018 è emblematico: il Mossad trafuga l’archivio nucleare iraniano e Netanyahu lo presenta in televisione come «prova definitiva» della doppiezza di Teheran. In realtà, si tratta di documenti relativi a un programma sospeso nel 2003, già noto in parte agli ispettori IAEA. Ma tanto basta a Donald Trump per ritirarsi dal JCPOA.
Dal disegno alla bomba mai costruita
La strategia si aggiorna: l’unità di misura non è più “anni alla bomba”, ma “tempo di breakout”, ovvero le settimane teoriche necessarie all’Iran per produrre uranio arricchito sufficiente a costruire un’arma. Nel giugno 2025, all’indomani degli attacchi israeliani su impianti nucleari iraniani, fonti militari dichiarano che Teheran è «a poche settimane dalla bomba». Ma anche stavolta l’IAEA smentisce: l’Iran possiede sì materiale arricchito, ma non un programma attivo di militarizzazione. La soglia tra uso civile e militare resta da verificare.
Non è la prima volta. Il National Intelligence Estimate statunitense del 2007 aveva già concluso che il programma militare era stato interrotto nel 2003. Lo stesso Mossad, nel 2012, contraddiceva pubblicamente il proprio primo ministro. La discrepanza tra retorica e intelligence è diventata strutturale: il messaggio politico è funzionale, e spesso scollegato dalla realtà tecnica.
Una minaccia utile, ma non vera
Da trent’anni Israele presenta l’Iran come pericolo imminente. E ogni volta la soglia si allontana. Non è un errore di calcolo: è una strategia. Ha funzionato per ottenere pressioni diplomatiche, per legittimare guerre segrete, per trasformare un rischio in leva. Ma ha anche contribuito a costruire un clima di allarme permanente, che alimenta escalation e delegittima ogni soluzione diplomatica. Oggi come nel 1992, la bomba iraniana continua a non esistere. Ma serve, ancora, a giustificare chi la evoca.