I sindacati europei tornano a fare il loro mestiere: difendere i diritti quando la politica abdica. Confederazioni e federazioni del lavoro chiedono alla Commissione di sospendere l’Accordo di associazione con Israele e di bloccare gli scambi con gli insediamenti nei Territori occupati. È il punto in cui le parole di circostanza hanno esaurito la loro utilità: davanti a Gaza affamata e rasa al suolo, il registro delle “preoccupazioni” è un alibi. Le sanzioni sono uno strumento di diritto, non un tabù.
Nel frattempo, un altro fronte civile si è mosso: gli allenatori italiani hanno scritto alla Figc chiedendo di inoltrare a Uefa e Fifa la sospensione temporanea di Israele dalle competizioni internazionali. Niente crociate ideologiche: in ballo c’è un principio semplice, lo sport non può normalizzare l’eccezione permanente. Quando i corpi dei bambini pesano più delle classifiche, l’unico risultato che conta è la pressione per fermare la violenza. La richiesta dell’Aiac è netta e, per una volta, coraggiosa.
Matteo Salvini ha risposto che «gli allenatori facciano gli allenatori». Accogliamo il criterio: i ministri facciano i ministri. Chi guida le Infrastrutture garantisca treni puntuali e opere trasparenti, senza usare lo sport come paravento di una linea politica impalpabile. Il governo ripete: «non politicizzate il calcio». Intanto chiede al Paese di abituarsi alla politica che non decide. Se i sindacati europei indicano la strada del diritto e gli allenatori ricordano il peso della coscienza, all’esecutivo resta un compito minimo: prendere atto che la neutralità, oggi, coincide con la complicità.