La toccata e fuga di Muti

di Valerio Cappelli per il Corriere della Sera

Le cose, all’Opera, sono peggiori di come le abbiamo rappresentate negli ultimi due mesi. Alla sua prima uscita pubblica, il nuovo sovrintendente Carlo Fuortes esordisce così: «Non sarà una conferenza stampa divertente, e mai avrei immaginato di cominciare con un incontro di questo tipo. Sulla reale situazione economico-finanziaria ho informato il sindaco, il presidente della Regione e il ministro ai Beni Culturali». Al solo 2013, la perdita è di 10 milioni di euro (finora si era parlato di 7 milioni e 500 mila).
Nel bilancio preconsuntivo, i costi di gestione sono cresciuti di 5 milioni e 700 mila e i ricavi sono scesi di 4 milioni e 200 mila. I ricavi sono 51 milioni e i costi 61. Il totale del debito nel triennio (al netto dei crediti) è di 25 milioni e 700 mila euro. «Se non fosse stato possibile l’accesso alla legge Bray, il teatro avrebbe chiuso», dice Fuortes. Eppure si dice «molto ottimista, entro l’anno dovrebbe essere tutto risolto, potremo portare in equilibrio il bilancio. Ieri ho presentato al ministero un documento preliminare che giustifichi la richiesta di un finanziamento importante per azzerare il debito».
Una premessa: tutto questo sarà pagato dai contribuenti. L’aspetto inquietante è come sia potuto accadere. «In effetti è abbastanza singolare», dice Fuortes, il quale all’inizio cita la lettera che mandò al Corriere l’ex vicepresidente Bruno Vespa in risposta alla denuncia del deficit: «Una cosa deve essere chiara, noi riconsegneremo un teatro risanato». Fuortes ricorda come ogni tre mesi un teatro sia tenuto a fare il bilancio previsionale: «All’Opera non è avvenuto nulla di tutto questo».
Sul costo del personale ci sono due follie: «3 milioni e 229 mila euro non figurano nel bilancio 2012, ma sono stati ammortizzati come qualsiasi altro costo per gli allestimenti. Una pratica che ritengo assolutamente spericolata e avventata, ancorché legale. È possibile che un’azienda decida di costruire beni pluriennali quale potrebbe essere un allestimento il cui costo venga spalmato su sette anni».
Ma si è mai vista la stessa Traviata per sette anni in qualsiasi teatro italiano? Chiunque ha la risposta in tasca. «Questa cosa sbilancia in modo straordinario la parte finanziaria. Così si è creato il disavanzo, l’indebitamento finanziario». La seconda follia sono gli stipendi dei dirigenti, il cui costo è passato in tre anni da 277 mila a 692 mila euro. Su questo punto Fuortes è in attesa dalla direzione amministrativa di «dettagli non ancora forniti». Nel triennio, i costi di gestione sono saliti del 12,4 percento (più 7 percento) e i costi del personale del 6 percento (pari a 2 milioni di euro).
Tornando al 2013, i ricavi delle vendite (biglietteria e altri servizi) è diminuita di 700 mila euro (pari a meno 9 percento), poi ci sono minori entrate dalla sponsorizzazione (meno 19,6 percento). L’autofinanziamento (i ricavi propri) è sceso al 16 percento: all’Auditorium, Musica per Roma (la società che gestisce lo spazio extra Santa Cecilia) si autofinanzia per il 67 percento.
Quanto ai fondi pubblici il teatro ha avuto una leggera contrazione pari a 660 mila euro: meno 160 dallo Stato e meno 500 mila dal Comune. Ma va ricordato che nessun Comune in Italia è generoso come il Campidoglio: 17 milioni e 500 mila (la seconda città è Milano con 6 milioni). Fuortes: «Non possiamo immaginare di aumentare i contributi pubblici e sperare in Babbo Natale, che è passato. Dobbiamo aumentare i nostri ricavi».
Gran parte del budget (56 milioni) viene assorbito dal costo del personale: 39 milioni 967 mila euro. Qui si innesca un’altra follia (non è possibile chiamarla in altro modo). «In ogni produzione c’è un’alternanza con gli orchestrali a tempo indeterminato, che sono 92 ma non venivano ritenuti in numero soddisfacente, e messi a riposo, al loro posto si prendevano i cosiddetti aggiunti che avevano appunto un costo aggiuntivo. Questo fa riferimento alla pianta organica così com’era stata definita.
L’accesso alla legge Bray (da cui si avranno 5 milioni) è possibile a tre condizioni: 1) riportare il bilancio in pareggio; 2) decadimento del contratto integrativo in essere e la sostituzione con uno nuovo; 3) ristrutturazione della pianta organica «al fine di raggiungere una maggiore produttività».
Perché questo deve essere chiaro: l’Opera di Roma costa molto (ai cittadini), produce poco e incassa pochissimo. I finanziamenti statali ora vengono dati solo in funzione di tre requisiti: produttività, qualità, capacità di diversificare le fonti di entrata. Va ricordato che il Teatro dell’Opera ha dichiarato tre consecutivi pareggi di bilancio.
Questi dati sono stati forniti, su richiesta, dall’ex sovrintendente Catello De Martino (che ha definito «tecnico» il suo primo incarico da sovrintendente) e dagli uffici amministrativi: «L’azione di responsabilità – dice Fuortes – sarà materia del Consiglio di amministrazione e sarà vigilata dalla Corte dei Conti». Il disastro dei conti all’Opera è avvenuto negli anni in cui vi lavora Riccardo Muti, uno dei maggiori direttori d’orchestra del mondo. Muti ha seguito il disastro dei conti del teatro di cui è direttore onorario a vita «con grande stupore».