La tortura democratica in carcere del 41 bis

di Vittorio Pezzuto

Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri è stata chiara: «Il 41bis? Quello non si tocca». Espressione tecnica del governo dell’inciucio, il Guardasigilli sa bene come questo regime carcerario unico in Europa sia ormai un dogma rivendicato da destra come da sinistra nel timore di cedere all’avversario l’arma propagandistica della guerra senza quartiere alla criminalità mafiosa. Soprattutto dopo che il decreto Conso, che ne aveva parzialmente attenuato il rigore, è stato utilizzato dalla procura di Palermo come prova fumante di un presunto accordo tra questa e lo Stato. Nato nel giugno 1992 per iniziativa dei ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli come misura eccezionale e temporanea per rispondere alle stragi di Capaci e di via D’Amelio, da allora il 41bis ha invece trovato stabile collocazione nel nostro ordinamento giudiziario. Grazie a esso il Guardasigilli può sospendere “per gravi motivi d’ordine e di sicurezza pubblica” l’applicazione delle regole ordinarie di trattamento dei detenuti (indagati, imputati, in attesa di giudizio e non solo condannati) per reati associativi: mafia, traffico di droga, sequestro e traffico di persone, terrorismo, omicidio, estorsione e rapina.

I dati ufficiali raccontano che dal 1992 al 2011 gli individui sottoposti a questa misura sono stati 2.320 (nel 2011 erano 673) e chiunque osi rivendicare per costoro il rispetto rigoroso dei diritti umani nella migliore delle ipotesi passa per essere un garantista ingenuo. Eppure sono costretti a durissime condizioni di vita (celle minuscole e semibuie; passeggio all’aria in gabbie di cemento chiuse in alto da fitti reticolati; un solo colloquio al mese con familiari e conviventi, separati da un inutile e crudele vetro divisorio; visite mediche specialistiche attese per anni) che solo in piccola parte sono state migliorate in questi anni a seguito delle reiterate condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quello che soprattutto sgomenta è il perverso meccanismo burocratico in cui si dibattono questi detenuti, per i quali sembra vigere la presunzione di colpevolezza. Le decisioni del Ministro si basano su note informative predisposte da procuratori e poliziotti che, di rinnovo in rinnovo, ripetono ogni volta la stessa ragione di pericolosità sociale. A queste persone si applica il principio dell’inversione dell’onere della prova: non è lo Stato a dover provare la loro appartenenza alla mafia ma viceversa sono i detenuti che devono dimostrare la cessazione di ogni loro rapporto con la criminalità organizzata. Un’impresa quasi impossibile, che li costringe a rivelare informazioni e non di rado a diventare collaboratori di giustizia (in dieci anni sono stati 200). La legge n. 94/2009 ha peraltro prodotto un rafforzamento del regime speciale, dal punto di vista sia della stabilità della sua applicazione (aumento della durata del provvedimento a quattro anni per la prima applicazione e a due per la proroga, riduzione delle possibilità di impugnazione, esclusione dell’annullamento parziale) sia dell’irrigidimento delle regole di gestione (ad esempio con la restrizione della socialità con gruppi composti da non più di quattro soggetti). Tutto questo nell’indifferenza dell’opinione pubblica e con il beneplacito di tutte le forze politiche, eccezion fatta (al solito) per i radicali.