Nel 2013 Marina Berlusconi, presidente di Fininvest, ha promosso un’azione per diffamazione legata al libro Io so, edito da Chiarelettere, citando in giudizio gli autori Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco e l’intervistato Antonio Ingroia. Dodici anni dopo, il 3 dicembre 2025, un’ordinanza della Cassazione chiude la vicenda: nessuna diffamazione. Per cogliere il significato di questa decisione bisogna tornare al nodo che rese Io so un caso nazionale: l’origine dei primi capitali Fininvest e il loro intreccio con la storia giudiziaria italiana.
Secondo Fininvest, scrive la Suprema Corte nel provvedimento, il libro instillava nel lettore “il sospetto che la fortuna economica di Berlusconi derivasse dal riciclaggio di capitali mafiosi del narcotraffico e detto sospetto era supportato facendo riferimento alle indagini parziali e mai concluse affidate al C.T.U. (Francesco, ndr) Giuffrida (funzionario di Bankitalia, ndr), nominato dal procuratore presso il Tribunale di Palermo nel processo a carico di Marcello Dell’Utri, il quale, in particolare, non sarebbe riuscito a portare a compimento l’accertamento sulla provenienza di ben 92 miliardi di lire, per essere stato raggiunto da una richiesta risarcitoria da parte di Fininvest S.p.A. che lo aveva impensierito al punto da indurlo ad una ritrattazione in merito ai dubbi sulla provenienza di quei 92 miliardi”.
L’origine dei capitali e il diritto di critica
Su questo terreno si è costruita l’azione civile di Fininvest. La tesi dei legali di Marina Berlusconi sosteneva che richiamare la non tracciabilità dei 92 miliardi equivalesse a suggerire un’origine criminale delle somme; che gli autori avessero “forzato” le conclusioni peritali dal momento che “la perizia Giuffrida non era affatto rimasta “in sospeso”, ma era stata oggetto di puntuale esame nel corso del dibattimento del processo di primo grado contro Marcello Dell’Utri e in esso le otto operazioni di cui il consulente della procura non era riuscito ad identificare la provvista (per 37 miliardi e non per 92) erano state interamente ricostruite, tanto che i pubblici ministeri (tra cui lo stesso Ingroia), con la requisitoria finale, avevano rinunciato all’accusa di riciclaggio” e il Tribunale di Palermo (con sentenza dell’11 dicembre 2004) aveva accertato che “tutte le provviste utilizzate erano interne e lecite”.
In sintesi, secondo Fininvest, il libro avrebbe trasformato un dato neutro in un sospetto diffamatorio. La Cassazione ha respinto questo impianto. Richiamare un dato ufficiale di una consulenza depositata in un procedimento pubblico, e cioè l’impossibilità di ricostruire l’origine di una parte rilevante dei capitali iniziali di un grande gruppo, viene riconosciuto come esercizio del diritto di critica, fondato su dati ufficiali ricavati da una consulenza depositata in un procedimento pubblico.
In questo senso, sebbene “nella transazione intervenuta tra la ricorrente (Fininvest, ndr) e il Giuffrida, quest’ultimo avesse negato la persistenza di dubbi sulla provenienza dei flussi finanziari utilizzati nelle 8 operazioni che inizialmente aveva considerato oscure”, la Cassazione rileva che “ciò non inficiava ‘le conclusioni contenute nell’accertamento peritale’…”.
Giudizio storico-politico
La critica di Ingroia viene considerata dalla Corte un giudizio storico-politico fondato su atti e sentenze, quindi protetto dalle garanzie del diritto di critica. Il libro-intervista, osserva infatti la Suprema Corte, “è stato ritenuto non un semplice articolo di cronaca giudiziaria, in relazione al quale si richiede una fedele ed asettica riproduzione dei fatti appresi dalle fonti, ma un articolo di approfondimento giornalistico contenente tesi di carattere politico, volte a criticare ed analizzare gli esiti processuali delle vicende giudiziarie di cui l’Ingroia si era personalmente occupato o con cui era venuto a contatto”.
Non si chiede al giornalista di dimostrare una verità penale oltre ogni ragionevole dubbio, ma di mostrare che il proprio racconto è sorretto da fonti verificabili e da una ricostruzione coerente. Racconto che, peraltro, scrive la Cassazione, “era volto non a ricostruire fatti di cronaca giudiziaria, bensì a fornirne una rappresentazione critica”.
Come del resto si chiariva già nell’introduzione, dove “era dato leggere ‘per questo rivendichiamo come giornalisti e come cittadini il diritto di interrogarci e di riflettere, senza l’onere della prova, sul ventennio berlusconiano e sulla sua origine…’ e ciò confermava che l’intento degli autori non era quello di descrivere i fatti, ma quello di proporre un loro ripensamento critico” anche per “suscitare un dibattito”.
Il ruolo di Dell’Utri e la sconfitta della strategia Fininvest
La decisione della Suprema Corte si inserisce nel solco già tracciato nel 2021, quando un’altra causa civile promossa da Fininvest contro Luca Tescaroli per il libro Colletti sporchi si era chiusa con il rigetto del ricorso in Cassazione. In quell’occasione i giudici avevano considerato legittimo, se ancorato ad atti processuali e a dichiarazioni di collaboratori di giustizia riscontrate, scrivere di “versamenti periodici di somme a titolo di contributo effettuati a Cosa nostra da persone fisiche appartenenti al gruppo Fininvest”.
Il nuovo verdetto sul libro Io so conferma questa impostazione e ne amplia la portata: l’opacità di una parte dei capitali iniziali diventa a sua volta un fatto di interesse pubblico, che può essere raccontato e criticato.
Una sentenza che ridisegna i confini del dibattito pubblico
La sconfitta di Fininvest chiude anche una stagione di cause considerate da molti osservatori come strumenti di pressione giudiziaria. Nel corso di oltre un decennio, la società ha trascinato in tribunale giornalisti, magistrati, editori, chiedendo risarcimenti milionari per libri che ricostruivano, su base documentale, i rapporti fra il gruppo berlusconiano e la mafia siciliana. Le sentenze definitive su Colletti sporchi e Io so stabiliscono che questo uso della giustizia civile non può trasformarsi in un bavaglio permanente sulla ricerca della verità storica.
Il punto fermo, oggi, è duplice. Da un lato, la giurisdizione penale non ha mai accertato un reato di riciclaggio nei capitali originari di Fininvest, e questo resta un dato giudiziario. Dall’altro, la giurisprudenza di Cassazione ha ritenuto legittimo che, alla luce di fondi non interamente tracciabili e dei rapporti con Cosa Nostra accertati in sede penale, si svolga un’analisi severa sul piano storico-politico. È esattamente lo spazio in cui si muove Io so, ed è questo spazio che la Cassazione ha deciso di difendere.
La conseguenza è chiara: dopo Colletti sporchi e Io so diventa molto più difficile usare le aule civili per provare a espungere dal dibattito l’esistenza di quei 92 miliardi dal profilo opaco o per far passare come diffamatorio il racconto del patto di protezione tra Berlusconi e Cosa Nostra ricostruito nelle sentenze penali su Dell’Utri. La storia non viene scritta in una sola sentenza, ma le sentenze possono stabilire fino a che punto la storia ha diritto di essere raccontata. In questo caso, il limite lo ha provato a fissare una grande azienda. Lo ha tracciato, invece, la Cassazione.