Le spese militari non saranno indolori: il Fondo Monetario smentisce Meloni

L’FMI smentisce il governo: senza tagli o nuove tasse l’aumento delle spese militari farà esplodere il debito a scapito dei servizi

Le spese militari non saranno indolori: il Fondo Monetario smentisce Meloni

Il governo Meloni ha un problema che non può più nascondere. Da mesi Giorgia Meloni, Giancarlo Giorgetti e Guido Crosetto raccontano che l’aumento delle spese militari italiane fino al 2% del Pil – obiettivo richiesto dalla Nato – sarà indolore per i conti pubblici. La parola d’ordine è “riclassificazione”: non si tratterebbe di veri nuovi stanziamenti, ma di un semplice ricalcolo di poste già esistenti. Una partita di giro. Peccato che a smontare questa narrazione arrivi ora il Fondo monetario internazionale (Fmi), con la brutalità dei numeri.

Gli artifici contabili del governo

Nel suo rapporto di fine missione, l’Fmi riconosce alcuni progressi nei conti pubblici italiani – deficit dimezzato e ritorno all’avanzo – ma non concede sconti: il quadro resta complesso, le prospettive di crescita altamente incerte e servono sforzi aggiuntivi per ridurre il rapporto tra debito e Pil. Il messaggio è netto: ogni nuovo intervento va interamente compensato da risparmi altrove.

Altro che spese “neutre”: l’aumento della spesa per la difesa richiede tagli o nuove entrate. L’Fmi ha intanto abbassato le stime sulla crescita italiana al +0,4% per il 2025. Un dato che inchioda ancora di più la propaganda sull’espansione dell’economia come leva per sostenere gli oneri militari.

A pesare sono l’invecchiamento demografico, i dazi internazionali, la stretta sui tassi e il rallentamento globale. In questo quadro, qualsiasi aumento strutturale della spesa rischia di minare la stabilità fiscale già fragile dell’Italia. Le parole usate dal Fondo sono un avvertimento esplicito sulla “vulnerabilità crescente” del Paese, che rischia di essere travolto da ogni eventuale shock esterno.

I rischi negati dall’esecutivo

Il ministro della Difesa Crosetto insiste sulla teoria della riclassificazione: il 2% del Pil si raggiungerebbe semplicemente includendo voci come Carabinieri, Guardia Costiera e Guardia di Finanza. Ma secondo l’Osservatorio Mil€x, per arrivare davvero al 2% servirebbero comunque circa 10 miliardi di euro in più rispetto ai 35 miliardi attuali.

Né la Nato sembra disposta ad accettare questi “gonfiamenti” contabili senza garanzie reali sulla capacità operativa. In una delle sue dichiarazioni più oneste, la stessa Meloni ha riconosciuto che “non basta un ricalcolo delle voci di spesa. Serve uno stanziamento reale”. Ma stanziamento reale significa solo una cosa: o si taglia altrove o si alza il debito. In entrambi i casi, il racconto sulla neutralità di bilancio non regge. Il rischio, chiarisce l’Fmi, è evidente: senza coperture vere, aumentare la spesa militare espone l’Italia a un ulteriore incremento del debito e alla perdita di credibilità sui mercati.

Gli interessi sul debito sono già elevati, e il Fiscal Monitor dell’Fmi calcola che ogni punto percentuale in più di interessi potrebbe comportare tagli alle altre spese sociali per circa 0,6 punti percentuali di Pil. L’aumento dei costi finanziari – già oggi superiori alla media europea – rischia di ridurre ulteriormente la capacità dello Stato di finanziare servizi essenziali. Dall’opposizione arrivano critiche trasversali. Giuseppe Conte parla di risorse sottratte al welfare e alla transizione energetica.

Riccardo Ricciardi denuncia un futuro “di guerra e di armi a scapito delle nuove generazioni”. Un sondaggio Swg per Greenpeace conferma che il 55% degli italiani è contrario all’aumento delle spese per la difesa. I dati mostrano una frattura sempre più netta tra le scelte di Palazzo Chigi e il sentimento del Paese. L’Italia non può permettersi tutto. Lo dicono gli analisti internazionali, lo confermano gli economisti, lo denuncia l’opinione pubblica. Le risorse sono finite.

Ogni miliardo in più per la difesa è un miliardo in meno per sanità, scuola, infrastrutture. L’illusione del “pasto gratis” su cui si regge la narrazione del governo è finita. Ora resta solo da decidere chi pagherà il conto.