L’economia italiana nella palude

di Sergio Patti

Due assenze così all’annuale messa cantata di Confindustria non si erano viste mai. Oggi all’Assemblea non si vedranno né il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, né con molta probabilità il presidente della seconda associazione industriale più pesante d’Italia, quella di Roma e del Lazio, Mario Stirpe. Segno che la presidenza di Giorgio Squinzi – che ieri ha rinnovato la squadra per il prossimo biennio – ha molto da ricucire con la Capitale, da Palazzo Chigi alla stessa Confindustria romana. Certo il leader degli industriali non immaginava proprio quel 40,81% delle ultime Europee quando a marzo scorso spinse il neo premier all’angolo, prendendosi come risposta la responsabilità di aver spinto l’Italia, insieme ai sindacati, nella “palude”. Cosa diversa è invece la frattura tra Nord e Sud che ha portato al clamoroso allontanamento del vicepresidente nazionale dell’associazione, quell’Aurelio Regina che era stato uno dei grandi elettori proprio di Squinzi alla guida dell’organizzazione di via dell’Astronomia. L’avvio di una guerra che si annuncia lunga e dolorosa, perché Regina adesso punta alla leadership dell’associazione, forte di una politica che ha girato le vele altrove.

I meccanismi che regolano la vita della Confindustria sono complessi e sconsigliano di giocare troppo d’anticipo. Ma, complice la crisi, l’associazione ha perso negli ultimi anni la centralità del passato. In più i conti non vanno affatto bene e nonostante la coraggiosa riorganizzazione dell’ultimo anno, la base è stanca di assistere a sprechi senza fine. Un esempio per tutti: Il Sole 24 Ore, il cui valore rispetto al collocamento in Borsa risulta massacrato e solo nell’ultimo bilancio ha perso 38 milioni di euro. Senza contare l’emorragia delle copie, per le quali negli ultimi giorni si è assistito a un penoso rimpallo di accuse tra l’editore e il precedente direttore Riotta.
Dunque c’è un tessuto sensibile al tema del ricambio ai vertici e Regina potrebbe essere il cavallo giusto per voltare pagina dopo Squinzi. Ovviamente negli ambienti più vicini all’imprenditore foggiano, ma ormai romano di adozione, nessuno conferma nulla. Di cose da fare d’altronde Regina ne ha, e non poche, visto che è presidente delle Manifatture del Sigaro Toscano, del Credit Suisse Italia Spa, della Fondazione Musica per Roma, dell’Agenzia per l’internazionalizzazione di Unioncamere e poi ancora consigliere delegato di British American Tobacco Italia e tanto altro ancora. Inoltre la casistica non è dalla sua. Un candidato del Sud alla presidenza di un mondo industriale che sta praticamente tutto al Nord è raro. Basti pensare al romano Luigi Abete, la cui candidatura alla presidenza degli industriali fu fatta passare dal Centro Studi dell’assolombarda. E proprio l’associazione di Milano, l’azionista di riferimento del sistema confindustriale, ha già in pancia un candidato forte, quel Gianfelice Rocca che i bene informati riferiscono già lanciato per la prossima presidenza.

Se Milano è il cuore dell’industria storica, Roma e la sua associazione regionale è però il centro delle aziende partecipate dallo Stato che incredibilmente versano la loro pesante quota per aderire al salotto dell’industria privata. Cose che succedono nelle paludi. Fatto sta che a Roma non l’hanno presa affatto bene né l’uscita di Regina dal board confindustriale, né la sua sostituzione alla vicepresidenza con un non romano. La poltrona lasciata libera è finita infatti a Carlo Pesenti. Così Squinzi oggi parlerà a un’assemblea ben consapevole di avere un problema. Anzi, almeno tre. Il primo sta nella tradizione degli industriali italiani, da sempre filogovernativi, ovunque vada il vento. E per tanti arrivare a Roma ed essere snobbati proprio da quel Renzi che magari hanno votato non è un bel segnale. Il secondo guaio sta nei conti dell’associazione, una macchina ancora troppo costosa. Ultimo grattacapo è la frattura interna, con la lunga campagna elettorale strisciante in corso. Pensieri che fanno dell’associazione un freno e non una spinta nella difficile rincorsa alla ripresa.

 

Oltre sei milioni senza lavoro, i giovani scappano all'estero

di Alessandro Righi

Tanti di quei 6,3 milioni di italiani senza lavoro hanno scelto Matteo Renzi alle ultime elezioni. A loro, e non solo, il governo dovrà fornire delle risposte. Subito. Prima che gli voltino le spalle. Perché la foto scattata dall’Istat sull’occupazione nel nostro Paese è impietosa. Ancora una volta. Oltre 6 milioni di disoccupati, come già detto, e una marea di giovani che ogni giorno decide di prendere il volo per cercare migliori fortune all’estero (quasi 100 mila in cinque anni). Il dato sui disoccupati emerge sommando i numeri del rapporto annuale dell’Istat, ovvero i 3 milioni e 113 mila disoccupati rilevati nel 2013 sommati ai 3 milioni e 205 mila italiani che vorrebbero lavorare. Detto questo, dal rapporto annuale presentato ieri a Roma dall’Istituto di statistica, c’è anche qualcuno che esprime fiducia, come donne e stranieri. Fiducia anche se il Paese nel 2013 non è cresciuto affatto e il Pil è sceso sotto i livelli del 2000. Al collasso anche i consumi (-2,6%), per il terzo anno di fila, e potere d’acquisto in calo dell’1,1%. Leggermente positive le esportazioni con un timido +0,1%. Ma inutile girarci intorno: la situazione resta drammatica.

AAA Lavoro cercasi
Solo nell’anno 2013 si sono polverizzati ben 478 mila posti di lavoro, mentre la disoccupazione è cresciuta dal 10,7% del 2012 fino al 12,2%. Letteralmente a picco i posti di lavoro nel campo delle costruzioni con un -9,3% che parla più di ogni cosa. Ma a pagare il prezzo più salato sono i giovani. Quelli tra i 15 e i 24 anni toccano quota 40% di disoccupazione con un incremento del 4,5% solo nel corso dello scorso anni. Molti hanno perso pure la speranza e un lavoro non lo ricercano nemmeno più. A far sperare in qualcosa di meglio è il settore manifatturiero. Tiene l’occupazione femminile (-0,1% nell’ultimo quinquennio). E sono sempre di più le famiglie dove è solo la donna a lavorare. Dolori per le donne in gravidanza che non riescono a rientrare in tempi brevi nel mercato del lavoro.

Tenue speranza
Sono i primi mesi del 2014 a lasciare qualche barlume di speranza con la domanda estera che pare stia trainando il fatturato di alcune imprese. A differenza comunque da quella interna che resta debolissima. Nel nord del Belpaese l’efficienza delle imprese appare sopra la media. Molte falle per il Mezzogiorno. Nell’anno in corso, però, secondo le stime dell’Istat il Pil dovrebbe crescere del 0,6% per giungere fino alla crescita dell1,4% prevista per il 2016. E con i venti di crisi un altro fenomeno tornato di moda è quello della propensione al risparmio.

Crollo demografico
Si innalzano le prospettive di vita (molto meglio anche rispetto alla media europea), ma allo stesso tempo nascono sempre meno figli. Senza un lavoro sicuro e duraturo, con contratti senza alcuna prospettiva, le coppie ci pensano bene prima di sposarsi e mettere al mondo piccole creature. Nel 2012 la media è stata di 1,42% figli per donna nel 2012, mentre la media Ue è stata di 1,58%.
Il rischio di povertà resta forte. Ancor di più nelle famiglie monogenitori con figli minori, toccando quota 33.5%. Dati a cui il governo Renzi dovrà provare a porre freno con provvedimenti strutturali. Perché alle promesse pre elettorali e ai primi interventi sul mercato del Lavoro dovrà essere dato seguito con altri fatti. Se non vogliamo masticare ancor più amaro alla prossima rilevazione statistica.