Letta se il Pd dovesse finire sotto al 22% avrà le ore contate

Nel Pd c’è già chi sta manovrando per sostituire Enrico Letta alla guida del partito in caso di insuccesso elettorale.

Le elezioni del 25 settembre non decideranno solo chi varcherà la soglia di Palazzo Chigi ma anche il futuro di più di un leader politico. Uno tra questi è sicuramente Enrico Letta. Ma se all’interno del Pd c’è già chi sta manovrando per sostituirlo, in caso di insuccesso elettorale, a lanciare l’anatema contro di lui non è stato, come si potrebbe più facilmente credere, qualcuno dall’interno del partito ma un esponente politico dall’esterno.

Nel Pd c’è già chi sta manovrando per sostituire Letta alla guida del partito in caso di insuccesso elettorale

Il 10 settembre da Pisa, città natale del segretario del Pd, il leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, non ha escluso di ritornare a dialogare col Pd ma ha escluso categoricamente di poterlo fare con “questi vertici nazionali”. Ovvero mai più con Letta. “Io valuto i comportamenti di questa dirigenza nei nostri confronti, gli errori politici, il cinismo, l’opportunismo”.

Guerra di successione Bonaccini-Orlando

Parole pesanti che già creano un primo gigantesco problema per quanti nel Pd, dal presidente dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini al ministro del Lavoro Andrea Orlando, hanno già pubblicamente dichiarato che dopo le elezioni bisogna riprendere il dialogo con i Cinque Stelle. E non è un caso che Bonaccini e Orlando siano due tra i nomi che circolano come candidati alla successione di Letta.

L’asticella su cui si deciderà il futuro dell’attuale segretario del Pd, Base riformista, che è pronta a sostenere la candidatura alla segreteria di Bonaccini, la fissa al 22%. I liberal democratici, nel caso in cui il Pd dovesse perdere male, sono pronti pure a processare Lorenzo Guerini che è stato finora il loro punto di riferimento.

Al ministro della Difesa si attribuiscono diverse responsabilità: dall’aver scarsamente sostenuto nelle liste del Pd le candidature degli esponenti della loro corrente (emblematica l’esclusione di Luca Lotti) all’aver appoggiato l’alleanza con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Al contrario c’è un anima del Pd, quella vicina alle posizioni del vice segretario Peppe Provenzano per intenderci, che, se Letta dovesse reggere il 26 settembre, è pronta a lavorare per spostare il partito a sinistra sganciandolo dalle sirene liberali.

E c’è, ancora, chi, sempre da sinistra, teme che un’affermazione di peso del M5S possa rivelarsi come un boomerang. Non sono pochi i militanti dem che hanno criticato la scelta di Letta di rompere con i Cinque stelle e sono pronti a rinfacciarglielo il 26 ottobre se davvero la forza politica guidata da Conte dovesse confermarsi come la sorpresa di queste elezioni.

Letta ha sul groppone diversi capi d’imputazione. Uno tra questi l’aver condotto una campagna elettorale basata più che sui contenuti sullo spauracchio delle destre al governo. Come dire: votate noi se non volete il peggio a Palazzo Chigi. Mentre sui contenuti, altro capo d’accusa, al posto di presentarsi con una sua proposta politica, e con sua si intende del Pd, ha preferito trincerarsi dietro la fantomatica agenda Draghi. Che non solo non è un’agenda di sinistra con politiche per il popolo ma nasce come agenda compromissoria, frutto di un governo di unità nazionale.

Fino a ieri il segretario del Pd ha ribadito che “ci sono due idee di Italia diverse, un’Italia come quella di Draghi che a Bruxelles conta e un’Italia che in Europa protesta, che è quella che propone Giorgia Meloni”. Che Letta sia in difficoltà lo testimonia anche il fatto che sia volato a Berlino per poter ottenere l’endorsement politico dai socialdemocratici tedeschi.

Una visita che il numero uno del Nazareno ha giustificato con l’obiettivo di voler “aiutare l’Italia su un tema fondamentale come quello delle bollette e dell’energia”. Peccato che dal colloquio con il cancelliere Olaf Scholz Letta non sia certo uscito con il sì della Germania al tetto al prezzo del gas.

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