Gli scontri di Tripoli in questi giorni hanno spazzato via ogni illusione: la Libia non è un partner, è un campo minato. L’Italia lo sa, ma finge il contrario, continuando a trattare con un Governo di Unità Nazionale che non controlla né la capitale né le sue milizie. Il caso dell’uccisione di Abdel Ghani al-Kikli, detto Gnewa, ne è la sintesi: leader armato, vicino al Consiglio presidenziale, eliminato da rivali legati al premier Dbeibah in un regolamento di conti da guerra civile.
In risposta, Dbeibah ha dichiarato finito il tempo dei “sistemi di sicurezza paralleli”. Ma la Libia è fatta solo di quelli. La sua mappa è una galassia di milizie, con alleanze liquide, che si contendono il territorio e i profitti. La morte di Gnewa ha fatto esplodere l’ennesima crisi armata a Tripoli, costringendo centinaia di civili alla fuga e bloccando anche cittadini italiani, tra cui imprenditori presenti alla fiera Libya Build.
Mentre la capitale bruciava, il premier libico riparava a Misurata. L’Italia evacuava in fretta e furia i connazionali da un aeroporto secondario, dopo che Mitiga era diventato inagibile. Eppure, il giorno dopo, il ministro Piantedosi parlava ancora della Libia come “partner cruciale”, mentre Tajani garantiva che l’ambasciata sarebbe rimasta aperta.
L’ambiguità sulla Libia che ci condanna
L’Italia continua a legare il suo destino energetico, commerciale e migratorio a un Paese che è al tempo stesso campo di battaglia, centro di detenzione e mercato nero. La cooperazione con il Gnu è strategica solo sulla carta: è basata su memorandum rinnovati automaticamente e su accordi che, nella pratica, violano il principio di non-refoulement e i più basilari diritti umani.
Nel solo aprile, le autorità libiche hanno sospeso le attività di Unhcr e di dieci Ong internazionali, accusandole di “sostegno ai migranti”. Intanto, nei centri di detenzione gestiti da milizie, proseguono torture, stupri, lavori forzati ed esecuzioni. E sono le stesse milizie a ricevere fondi europei per “gestire i flussi”. Un sistema che si alimenta con il silenzio, con la retorica della “cooperazione” e con il pretesto della stabilità. Ma la stabilità non si compra, e in Libia non si affitta.
L’Italia tra interessi e ipocrisie
L’Italia ha bisogno della Libia per il gas, con Eni che mantiene operazioni vitali a Mellitah e il gasdotto Green Stream che arriva fino a Gela. Ma ogni crisi, ogni colpo di mortaio, ogni blocco di milizia mette in pericolo investimenti, contratti, sicurezza energetica. Allo stesso tempo, la Libia resta la chiave della politica migratoria italiana: più la situazione si deteriora, più aumentano le partenze, più servono accordi con chiunque abbia un porto e un kalashnikov.
Il “Piano Mattei” si propone come ponte tra Europa e Africa, ma traballa su fondamenta fragili. Perché la Libia non è un ponte, è un abisso. Continuare a fingere che basti la cooperazione con un governo nominale significa accettare che tutto il sistema italiano in Libia – energia, migrazione, diplomazia – poggi sul ricatto delle armi.
L’ora di una scelta
Ogni giorno in cui l’Italia difende il Memorandum del 2017 è un giorno in cui si rende corresponsabile di un sistema di violazioni sistemiche. Ogni investimento in Libia non accompagnato da un impegno credibile per la stabilità e la demilitarizzazione è un investimento a perdere.
Il governo italiano può continuare a cercare “sicurezza” nei memorandum e nel caos controllato. Oppure può riconoscere che serve una svolta: un’altra idea di Libia, che non sia prigione a cielo aperto né terminale delle ambizioni italiane. Ma questo implica dire la verità, ammettere le complicità, e finalmente scegliere da che parte stare.