Se fosse tutto confermato, ci sarebbe da ridere di gusto. Già perché l’ultima indagine della Procura di Roma ha svelato l’ennesima storia di corruzione nell’ambito delle gare pubbliche. Non ci sarebbe nulla di strano rispetto a tante storie simili, eppure dietro alle 20 misure cautelari eseguite ieri c’è una storia che ha dell’incredibile. Eh sì perché gli otto funzionari coinvolti, assieme ai 12 imprenditori della città eterna, si erano spinti a compiere illeciti addirittura all’interno della Corte di Appello che nel Tribunale di Roma. Come potessero pensare di farla franca, appare un mistero.
Quel che è certo è che il personaggio di spicco in quest’inchiesta, uno dei quattro indagati finiti in carcere, è l’imprenditore Franco De Angelis. Un nome che ai più potrebbe non dire granché ma che, invece, è piuttosto noto alle cronache giudiziarie in quanto, nel 2015, era stato coinvolto nell’operazione Vitruvio relativa all’interporto – fallito – di Civitavecchia. Oltre a lui, fondamentale in questa vicenda e finito anch’esso in carcere, c’è anche il dirigente pro-tempore del Provveditorato interregionale per il Lazio, l’Abruzzo e la Sardegna, Luigi Antonio Fazzone.
IL SISTEMA. Il fascicolo, coordinato dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, ha appurato come gli imprenditori e i funzionari pubblici per conseguire i loro scopi erano disposti a tutto: mazzette, assunzioni di parenti e amici, lavori a casa, regali tecnologici e perfino pregiati tartufi. Regalie di poche centinaia di euro, sintomo di una corruzione diffusa e pervasiva che veniva scambiata come normalità, che permettevano ai costruttori di ottenere favori e appalti dalla politica. Questo è, forse, uno degli aspetti più inquietanti perché si tratta di quelle che gli inquirenti hanno definito “nuove o micro tangenti” che sono assai più difficili da scoprire e che, triste ma vero, sviliscono ancor di più il ruolo istituzionale dei corrotti.
Basterebbe questo per indignare ma, carte alla mano, si scopre che pur di non finire sotto la lente della magistratura, alcuni imprenditori indagati arrivavano addirittura a falsificare le proprie generalità, date di nascita inclusa, così da evitare che vecchie noie giudiziarie precludessero loro la partecipazione alle gare pubbliche. A farlo, in particolare, è stato proprio l’imprenditore De Angelis che, per la vicenda dell’interporto fallito, era stato arrestato. E quest’ultimo proprio con il funzionario Fazzone aveva in ballo alcune importanti questioni, in quello che sembra esser stato un rapporto di reciproca stima e collaborazione. Relazioni amicali che, come si legge nelle carte, avevano spinto il dirigente del provveditorato a chiedere all’amico, l’impegno a sponsorizzarlo per la nomina a direttore generale della Direzione generale territoriale per il Centro sud del ministero Infrastrutture e Trasporti.
REATI IN TRIBUNALE. Eppure quel che proprio fa storcere il naso è che gran parte dei lavori, tutti ottenuti illecitamente secondo i magistrati, avvenivano all’interno della Corte di Appello di Roma di viale Giulio Cesare e all’interno del Tribunale di Roma di piazzale Clodio. Per la precisione, come si legge all’interno dell’ordinanza, grazie ai buoni uffici di tre funzionari del Provveditorato indagati, l’imprenditore De Angelis aveva ottenuto l’assegnazione di un appalto “per l’importo di 403mila euro” per “il completamento e l’adeguamento dell’impianto di climatizzazione e antincendio presso gli uffici della Corte di Appello di Roma”. Altri 103mila euro venivano pagati per “il rifacimento del camminamento che collega le celle dei detenuti alle aule di udienza del Tribunale di Roma”; ulteriori 115mila euro erano stati pagati per “l’eliminazione delle infiltrazioni d’acqua” in alcune stanze del ministero della Giustizia e, ironia della sorte, del Casellario giudiziario.
Può bastare? Nient’affatto perché sicuri di non essere in alcun modo scoperti, non contenti di aver svolto lavori sia nelle sedi di piazzale Clodio e di viale Giulio Cesare, riuscivano a ottenere altri 158mila per l’adeguamento dei locali delle ex camere di sicurezza ed archivio presso la Corte di Appello di via Romei. Ma c’è di più perché gli indagati, evidentemente con il pallino di raggirare la giustizia italiana, si erano spinti anche a chiedere – e ottenere – piccoli lavori di manutenzione nel carcere di Regina Coeli come quelli messi in pratica per riparare alcuni generatori di calore.