Meloni e il rapporto con i media: “Non ho voglia di parlare con la stampa italiana”. Un programma di governo in due parole

Il fuori onda di Meloni non è una gaffe: è una strategia che riduce il contraddittorio, le critiche e piega il servizio pubblico.

Meloni e il rapporto con i media: “Non ho voglia di parlare con la stampa italiana”. Un programma di governo in due parole

Nello Studio Ovale allargato, Giorgia Meloni risponde con un sorriso all’osservazione del finlandese Alexander Stubb sulla disponibilità di Donald Trump a far entrare i giornalisti: «Io non voglio mai parlare con la stampa italiana». È un fuori onda, ma è soprattutto una confessione. Pochi minuti dopo, quando Trump propone di prendere qualche domanda, la premier sussurra che «è meglio di no, andremmo troppo lunghi». La scena vale come prova regina: non un incidente, ma la sintesi di un metodo rodato a Roma e riprodotto a Washington. 

Evitare il contraddittorio

Dopo il naufragio di Cutro e la conferenza tesa del 9 marzo 2023, le “vere” conferenze stampa diventano rare. Si preferiscono dichiarazioni a margine, tempi contingentati, nessuna replica. È un pattern misurabile: analisi comparative indicano che nell’arco del mandato, Meloni ha tenuto in media circa una conferenza stampa al mese, molto meno dei predecessori; e alla conferenza di inizio 2025 la regola è «una domanda a testa», senza possibilità di incalzare. Anche la tradizionale conferenza di fine 2024 fu rinviata a gennaio, con relative polemiche sui motivi dello slittamento.  

Nel frattempo cresce la comunicazione “diretta”: la rubrica social “Gli appunti di Giorgia”, le interviste a reti e giornali amici, il controllo narrativo spostato su canali selezionati. Il risultato è un’agenda senza mediazioni, in cui il confronto pubblico si riduce a monologo e le domande ostili vengono sterilizzate. Anche a Washington, lo si è visto, la scelta è evitare il rito del Q&A.  

A difesa, la premier ostenta numeri («350 domande nel 2024») che confondono scambi mordi e fuggi, interviste benevole e occasioni di reale contraddittorio. Gli ordini professionali hanno fatto notare che senza repliche il dialogo è sbilanciato: non è una formalità, è la sostanza del controllo democratico.  

L’attacco preventivo ai media

Al disinnesco del contraddittorio si affianca la delegittimazione. A Pechino la premier bollò come «portatori di interesse» alcune testate critiche, confondendo un rapporto ufficiale Ue sullo Stato di diritto con un dossier indipendente: un errore fattuale trasformato in strumento retorico. Il messaggio è costante: se la critica esiste, è sospetta; se insiste, è “fake news”. 

Il braccio politico esegue. Fratelli d’Italia ha intrapreso azioni senza precedenti contro Report e il giornalista Giorgio Mottola, mentre in Parlamento sono comparsi emendamenti punitivi sulla diffamazione, poi ritirati dopo le proteste. Sul terreno giudiziario, la stagione delle querele “temerarie” resta un fatto: casi celebri (Saviano) e contenziosi con testate indipendenti (compresa La Notizia) hanno segnato questi anni, con esiti alterni ma con un effetto certo, l’autocensura.  

C’è di più. L’episodio Scuratimonologo sul 25 aprile cancellato e poi “recuperato” dalla premier sui propri canali – ha mostrato come il potere possa intervenire prima sul quadro e poi sulla cornice, intestandosi la riparazione e perfino il testo. L’Usigrai ha parlato di «Tele-Meloni» e ha respinto il ruolo di megafono del governo. 

Classifiche, watchdog, servizio pubblico

La confessione americana arriva su un terreno già arato dagli osservatori. Reporters sans frontières registra il peggioramento dell’Italia nell’Indice sulla libertà di stampa: dal 46° posto (2024) al 49° (2025), con riferimenti alle pressioni politiche, alla concentrazione editoriale e al caso Agi. Non è un giudizio d’opinione: è un dato comparato internazionale. 

Il consorzio europeo Mfrr parla, dal 2024, di «pressioni senza precedenti» e censisce un picco di segnalazioni su minacce e interferenze; i numeri raccolti sulla piattaforma Mapping Media Freedom indicano un balzo di alert dall’insediamento del governo. La Fnsi ha denunciato perfino «liste di proscrizione» contro cronisti indicati come “anti-Meloni”, chiedendo l’intervento del Viminale.  

Sul servizio pubblico, le nomine e i casi editoriali hanno alimentato scioperi e proteste. Il sindacato Rai ha segnalato una torsione dell’indipendenza e della pluralità; i dossier internazionali registrano la tendenza. Nello stesso contesto, è esplosa la vicenda spyware (Paragon/Graphite): tra i bersagli anche giornalisti italiani, con richieste di chiarimenti da parte di istituzioni e ong. Palazzo Chigi ha negato abusi, ma il danno alla fiducia resta. 

Social senza contraddittorio

Le giustificazioni ufficiali non spostano il punto. Delegare i ministri «per evitare il leaderismo» non equivale a sottrarsi al confronto come capo del governo; rivendicare l’uso dei social non sostituisce le domande in diretta; evocare “campagne” contro l’esecutivo non assolve dalle responsabilità di trasparenza. Gli standard liberali prevedono che chi governa si sottoponga a domande difficili, regolarmente, in sedi aperte, con repliche, senza scelta preventiva degli interlocutori. La fotografia scattata dai dati e dagli episodi dice altro.  

C’è infine l’effetto sistemico. Se si riduce lo spazio del contraddittorio, se si etichetta la stampa scomoda, se si minaccia sul piano legale o si restringe l’accesso agli atti giudiziari, l’ecosistema informativo si impoverisce: i cittadini diventano destinatari di messaggi, non partecipanti al dibattito; i giornalisti si muovono in un clima di rischio e convenienza; il servizio pubblico si adatta. È la democrazia a perdere definizione.  

La frase intercettata alla Casa Bianca chiude il cerchio più di ogni analisi. «Io non voglio mai parlare con la stampa italiana» non è un vezzo privato; è la rivendicazione di un modello di governo che preferisce il monologo al confronto, l’adesione alla verifica. In tre anni i segnali c’erano tutti. Ora sono diventati parole. E, soprattutto, prassi.